IL PIÙ GRANDE
SOVRANO DELL’ITALIA MERIDIONALE
Articolo a cura di Simone Valtorta di www.storico.org
Fra i «grandi» che costellano la plurimillenaria
storia dell’uomo, i capi e i condottieri di popoli e di Nazioni, un posto di
primo piano spetta senza dubbio a Federico II di Svevia, Sovrano di Sicilia,
d’Italia, di Germania e di Gerusalemme. Tra i vari titoli che gli si possono
attribuire forse il più adatto, nella sua concisione e completezza, è quello
che gli diedero i contemporanei: «stupor mundi», cioè «meraviglia del mondo».
E, veramente, nessun altro uomo del suo tempo poté dirsi pari a lui per
ingegno, lungimiranza e cultura.
Questo Sovrano italianissimo nasce il 26 dicembre 1194
a Jesi, nelle Marche (provincia di Ancona). Suo padre Enrico VI Hohenstaufen,
figlio del celebre Barbarossa, è Imperatore di Germania; sua madre Costanza
d’Altavilla, è Regina sul trono normanno di Sicilia: egli assommerà in sé
entrambe le corone. Non avrà un’infanzia facile: rimasto orfano in tenera età,
viene educato alla corte di Palermo dagli ambasciatori del Pontefice Innocenzo
III, che Costanza, prima di morire, ha nominato tutore del piccolo principe.
Questi riceve un’educazione cavalleresca, che gli trasmette i molteplici
stimoli che si agitano nell’ambiente culturale aperto e cosmopolita della
metropoli siciliana; ben presto comincia a mostrare uno spiccato senso del
proprio rango e una suscettibile consapevolezza della propria dignità di
Sovrano. Federico è un ragazzo biondo, costretto a crescere in fretta; la viva
intelligenza, le doti cavalleresche, ma anche l’asprezza del giudizio e la
determinazione irremovibile colpiscono gli osservatori già in questi primi
anni.
A quattordici anni, viene dichiarato maggiorenne e
prende possesso del Regno di Sicilia; tre anni dopo, nel 1220, è eletto
Imperatore di Germania. Questa nomina è stata favorita dal Papa, che gli vuole
bene e crede di riuscire ad imporre la propria volontà al giovane Sovrano
(siamo ai tempi in cui Papa e Imperatore si contendono il supremo potere). Ma
Federico II manifesta subito uno spirito di indipendenza che più tardi si
trasformerà in rivolta. Combatte contro tutti i nemici, che poi sono gli stessi
contro cui ha lottato il nonno: il Papato da una parte, e i Comuni guelfi
italiani dall’altra. In guerra è un uomo spietato: acceca i nemici e li lascia
morire in fosche prigioni. Si scontra con le truppe pontificie che hanno invaso
i suoi territori dell’Italia Meridionale, con i Comuni dell’Italia Settentrionale
che si sono riuniti nella seconda Lega Lombarda.
Consegue importanti vittorie, tra le quali quella
ottenuta a Cortenuova sull’Oglio nel 1237, contro la Lega dei Comuni: le truppe
imperiali, appoggiate da alcune città ghibelline e dalle forze di Ezzelino da
Romano, si impadroniscono del Carroccio, che viene esposto in Campidoglio quale
trofeo di vittoria – ma non riescono a spezzare definitivamente i vinti.
Oltretutto, deve recarsi in Germania per pacificare e dominare i nobili che
vogliono impadronirsi dei territori del suo vasto Impero: debella molti conti e
marchesi che cercano di essere indipendenti, fonda città e zecche, si sforza di
raggruppare i demani regi, i ministeriali e le città in unità amministrative
più efficienti; ma a lui, cresciuto sotto il sole siciliano, le fredde regioni
del Nord non interessano, così è ben disposto a fare ampie concessioni alla
nobiltà teutonica pur di mantenerla tranquilla e dedicare le sue attenzioni
all’Italia.
Il governo di Federico, soprattutto in Sicilia, è un
governo assolutista ma nello stesso tempo illuminato, tanto che l’isola
raggiungerà un vertice di prosperità mai più eguagliata. La dominazione araba
ha lasciato in Sicilia splendidi monumenti ed una fiorente civiltà; i Normanni,
rudi guerrieri venuti dalle lontane terre dell’Europa Settentrionale, non hanno
soppresso nulla, si sono anzi bene ambientati. Federico II, appena salito sul
trono, rivoluziona il suo Stato: rinnova l’agricoltura, mette ai posti di
comando gente preparata, ristabilisce l’autorità regia contro i feudatari,
forma una salda burocrazia di funzionari stipendiati (particolare non comune
all’epoca, che contribuisce alla stabilità dell’amministrazione), si circonda
di collaboratori capaci; riorganizza l’ordinamento legislativo mediante la
promulgazione delle Costituzioni melfitane nell’agosto del 1231 che
ampliano in maniera cospicua l’insieme degli obblighi che lo Stato ha nei
confronti dei sudditi e, con l’ordinamento per i medici e i farmacisti,
presagiscono il moderno sistema sanitario. Federico vuole intorno a sé i più
sapienti dei suoi sudditi, senza badare alla loro razza e alla loro religione,
dimostrando così una grande tolleranza: dell’amministrazione fanno parte
giuristi e politici fra i quali Pier della Vigna, Taddeo da Sessa, Andrea da
Isernia. Non si ferma in un’unica città, ma cambia frequentemente la sede della
sua corte – Melfi, Foggia, Lucera, Napoli, Capua e soprattutto Palermo sono, di
volta in volta, le città prescelte dal Sovrano. Durante gli spostamenti si fa
sempre precedere dalle fedelissime guardie saracene, reclutate tra i musulmani
di Sicilia, che meravigliano le folle con i loro fantastici turbanti, le
scimitarre ed i focosi cavalli. Sposa tre donne e ne ama molte altre, che gli
danno anche dei figli.
Alla sua corte ferve la vita: si balla, si ride, si
discute, si parla di scienza, di poesia, di animali, di caccia, di letteratura,
di filosofia. Chi tiene le fila delle discussioni è lo stesso Federico: parla
sette lingue correttamente, tra le quali l’arabo e l’ebraico.
Ha un interesse speciale per la cultura. Si occupa di ogni arte e di ogni scienza, perfino di chirurgia e di farmacia. La sua sete di sapere non conosce confini; i suoi segretari sono continuamente al lavoro per tradurre opere di filosofia e di matematica dal greco e dall’arabo, che lui dona alle Università di Napoli (la prima Università statale d’Europa, da lui fondata, e nella quale ha chiamato ad insegnare i migliori professori), di Pavia e di Bologna per diffondere il sapere. Si impegna egli stesso in dispute scientifiche e filosofiche, scrive un trattato di falconeria – il De arte venandi cum avibus – ricco di osservazioni dirette, appresta uno zoo con gran copia di animali esotici. Anche l’antica Scuola Salernitana, famosa per gli studi di medicina, viene protetta e riordinata. Inoltre Federico II fonda nuove città, come quella di Altamura nelle Puglie; è grandissima l’influenza del suo pensiero sull’arte del tempo, dagli originalissimi castelli, alla statuaria, alla sfragistica, alle monete, all’illustrazione dei codici. La sua corte diventa presto un grande centro culturale: vi giungono dotti da ogni parte d’Italia e dall’estero, perfino dal mondo arabo – le relazioni dell’Occidente con il Vicino Oriente musulmano, cominciate in modo drammatico con le Crociate, vengono proseguite sul piano culturale alla corte di Federico II.
Ha un interesse speciale per la cultura. Si occupa di ogni arte e di ogni scienza, perfino di chirurgia e di farmacia. La sua sete di sapere non conosce confini; i suoi segretari sono continuamente al lavoro per tradurre opere di filosofia e di matematica dal greco e dall’arabo, che lui dona alle Università di Napoli (la prima Università statale d’Europa, da lui fondata, e nella quale ha chiamato ad insegnare i migliori professori), di Pavia e di Bologna per diffondere il sapere. Si impegna egli stesso in dispute scientifiche e filosofiche, scrive un trattato di falconeria – il De arte venandi cum avibus – ricco di osservazioni dirette, appresta uno zoo con gran copia di animali esotici. Anche l’antica Scuola Salernitana, famosa per gli studi di medicina, viene protetta e riordinata. Inoltre Federico II fonda nuove città, come quella di Altamura nelle Puglie; è grandissima l’influenza del suo pensiero sull’arte del tempo, dagli originalissimi castelli, alla statuaria, alla sfragistica, alle monete, all’illustrazione dei codici. La sua corte diventa presto un grande centro culturale: vi giungono dotti da ogni parte d’Italia e dall’estero, perfino dal mondo arabo – le relazioni dell’Occidente con il Vicino Oriente musulmano, cominciate in modo drammatico con le Crociate, vengono proseguite sul piano culturale alla corte di Federico II.
L’Europa intera guarda ammirata il grande Sovrano e il
suo seguito di guerrieri e di nobili, di artisti e di scienziati, di astrologi
e di commedianti. Molto graditi alla corte di Federico sono i poeti. Fino ad
oggi si è sempre scritto in latino: tutti i documenti ufficiali, tutti gli atti
dei notai sono in latino (un latino ovviamente imbarbarito rispetto alla lingua
classica di Cesare e Cicerone). Il popolo non parla latino, ma si esprime in
una lingua che sta fra il latino e l’italiano, una lingua volgare (cioè parlata
dal «volgo», dal popolo) che nessuno si azzarderebbe a scrivere. La prima
spinta ad usare questa lingua che tutti parlano e che nessuno scrive, viene dai
poeti che soggiornano alla corte di Federico, tra i membri della cosiddetta
Scuola Siciliana, la prima scuola letteraria d’Italia. Fra questi poeti
troviamo lo stesso Federico II (sono sei i componimenti che, con vario grado di
attendibilità, diversi testimoni gli assegnano), i suoi figli Enzo e Federico
d’Antiochia, Jacopo da Lentini (il caposcuola), Jacopo Mostacci, Pier della
Vigna, Rinaldo d’Aquino, Giacomino Pugliese e Odo delle Colonne. Oggetto delle
loro rime è l’amor cortese, le cui caratteristiche sono «servire, temere e
celare», suggerite dai trovatori provenzali; accanto a questi temi, si
affermano originali spunti di ispirazione popolare. Accorrono poeti e rimatori
non solo siciliani e napoletani ma anche di altre parti d’Italia, cosicché la
Sicilia diviene la terra che darà all’Italia la nuova lingua poetica.
Ecco un esempio di Jacopo da Lentini, che dipinge il
volto dell’amata: “Lo viso mi fa andare allegramente, lo bello viso mi fa
risvegliare, lo viso mi conforta ispessamente, l’adorno viso che mi fa penare. Lo
chiaro viso de la più avenente, l’adorno viso riso mi fa fare. Di quello viso
parlane la gente, ché nullo viso (a viso) li pò stare. Chi vide mai così begli
occhi in viso, né sì amorosi fare li semblanti, né bocca con cotanto dolce
riso? Quand’eo li parlo moroli davanti, e paremi ch’eo vada in Paradiso, e
tegnomi sovrano d’ogn’amanti”.
Si noterà che la lingua non sembra siciliana
(troviamo, per esempio, “alegramente” e “risvegliare” dove ci aspetteremmo “alegramenti”
e “risvegliari”); questo perché non abbiamo le rime della Scuola Siciliana se
non tramite la riscrittura dei poeti toscani, che non si sono limitati a
copiare i versi ma li hanno adattati alla loro lingua. Ed è anche per questo
che l’italiano nasce a Firenze anziché a Palermo. Gli ultimi anni di vita di
Federico sono travagliati da molte sventure familiari e politiche. Il dubbio
s’annida profondamente nel suo animo, si sente tradito da tutti, comincia a
sospettare anche degli amici più fidati; uno di questi è il dotto notaio e
giudice Pier della Vigna, che, coinvolto (forse a torto) in una congiura contro
l’Imperatore, è messo in prigione ove si toglie la vita. Nel 1248, Federico II
viene sconfitto a Vittoria dal Comune guelfo di Parma: il tesoro imperiale
comprendente la corona e il sigillo cade nelle mani dei Parmensi, e Taddeo da
Sessa viene ucciso.
Enzo, autodesignatosi Re di Sardegna, corre in aiuto
del padre, ma viene battuto e catturato dai guelfi bolognesi a Fossalta l’anno
successivo. Il dolore di Federico è immenso: Enzo è il figlio prediletto, il
più amato. Nelle ore della sua prigionia, Enzo compone poesie; qualcuna giunge
fuori della prigione, arriva nelle mani di gente colta. Un certo Guinizelli,
seguendo l’esempio di Enzo, scrive un componimento che dà il via a tutta una
fioritura di poesie in volgare. A Bologna, il figlio di Federico morirà
prigioniero nel palazzo chiamato poi di Re Enzo (1272). Pur se scomunicato tre
volte, per la lotta contro Gregorio IX e Innocenzo IV, attirandosi i titoli di “bestia
dell’Apocalisse” e “precursore dell’Anticristo”, Federico II chiede di
confessarsi e di comunicarsi prima di morire. Colpito da un attacco di
dissenteria, l’Imperatore spira da Cristiano a Ferentino di Puglia, il 12
dicembre del 1250, vestito dell’abito grigio dei Cistercensi e confortato dal
suo amico, l’Arcivescovo di Palermo Berardo di Castagna. Le sue spoglie sono
ora conservate in un sarcofago di porfido nella Cattedrale di Palermo. Il Regno
di Federico non esiste più; la dinastia di cui lui è stato il più grande
esponente è scomparsa dalla Storia. Ma la cultura a cui ha dato avvio ed
impulso, il sapere che ha condensato e diffuso per tutta l’Italia, ancora vive
e brilla nella cultura del nostro Paese e di tanta parte del mondo!
https://www.youtube.com/watch?v=M226SHA9sL8
RispondiEliminal'era dei collegamenti tra i tempi esiste nello spirito del Profumo. Anna Rosa Ferrari
Visita invidiabile. Mi manca
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