Islam, l'altra faccia del
mondo e della religione, tra origini nazionaliste e crociata moderna. Dalla confusione
interna ai musulmani sui principi e la missione divina ad uno scontro
intermittente di civiltà sulla lama del pugnale. Una Jihad globale con un
occhio ai pozzi di petrolio?
DAI
CALIFFI DI ISPIRAZIONE ROMANA ALL’ODIERNO MEDIOEVO TECNOLOGICO
L’Islam alla conquista del mondo o no? È da
14 secoli che questa minaccia fa avanti e indietro. Non che ci sia qualcosa di
illogico in questo tentativo già inseguito per lungo tempo, con mezzi
differenti, anche dal Cristianesimo e durante il Colonialismo; ma un buon pezzo
di civiltà ha definitivamente abbandonato l’idea. Ancora oggi, invece, in tempi
di riedizione del califfato islamico come storico progetto di unificazione
nazionale delle comunità musulmane sparse per il mondo, occorre ricordare che
non parliamo di un fenomeno nuovo ma di un progetto politico-religioso che a
fasi alterne affonda le sue radici nel VII secolo d.C. Però, per una strana
involuzione dei riti della storia, assistiamo ora più che nel passato ad una
medievale ma tecnologica brutalizzazione delle mire fondamentaliste islamiche
che – anche attraverso sgozzamenti, tendenze genocide e utilizzo delle tecniche
di comunicazione più moderne – mirano ad arrivare fino a Roma.
È una vera e propria degenerazione dell’islamismo,
al suo interno e verso il resto del mondo, non nato in principio con l’idea di
conquistare e convertire la civiltà. Per tentare di ricostruire dalle radici la
degradazione che la comunità internazionale si trova ad affrontare oggi
dobbiamo tornare molto indietro, quasi alle origini, e spulciare quel poco che
si tramanda sulla storia del califfo – tra i più importanti di sempre – Umar Ibn Al-Khattab sotto il cui
dominio cadranno tra il 634 e il 644 d.C. Siria, Palestina, Egitto, Mesopotamia
e Persia Occidentale sottoposte poi ad “una politica che consentisse di governare il grande impero che
i suoi eserciti avevano conquistato. Stabilì che nelle regioni conquistate, gli
arabi avrebbero formato una casta militare privilegiata che doveva risiedere in
cittadelle fortificate, lontano dalle popolazioni sottomesse. I popoli
assoggettati dovevano pagare dei tributi ai conquistatori musulmani ma per il resto
venivano lasciati in pace. Soprattutto non furono costretti con la forza a
convertirsi all’Islam”. M. Hart, Gli
uomini che cambiarono il mondo, p.354.
È di una certa evidenza che la conquista
araba, vedremo fino a quando, si caratterizza come guerra nazionalistica a
carattere espansionistico e non come guerra santa, per quanto è ovviamente
possibile scorgere l’aspetto religioso. In ogni caso, una visione tipicamente “romana”
di conquista e di accoglienza di usi e religioni dei popoli sottomessi: “Il modello
della nuova amministrazione fu quasi sempre offerto ai conquistatori arabi
dallo stato romano-bizantino e anche dal sistema economico persiano. Da
quest’ultimo ad esempio nacque il famoso Diwan,
da cui l’attuale dogana. A guidare lo stato era il califfo, la cui figura subì
con il tempo una profonda evoluzione. All’inizio infatti egli era un capo di
carattere religioso che, al massimo, coordinava i rapporti tra le varie tribù.
In seguito invece, allorché il califfato divenne ereditario, fu suo compito dividere
le terre, creare una classe di proprietari, maomettani convinti, che
costituirono il nerbo della società araba, una sorta di protetti esentati dal
pagamento delle imposte, ma tenuti a proteggere politicamente in modo fanatico
l’azione dei governanti. I popoli soggetti invece furono obbligati al pagamento
dei tributi e venne loro proibito di portare le armi e di avere incarichi di
carattere politico e amministrativo. Essi furono denominati Dhimmi, godettero di autonomia limitata
e la loro unica ma non indifferente libertà fu quella di poter conservare la
loro fede religiosa originaria… Una certa tolleranza religiosa, di cui proprio
ora si è fatto cenno, poi fece sì che le popolazioni occupate mantenessero la
propria autonomia e, almeno in parte, le proprie convinzioni in fatto di culto,
cosa che aumentò il già alto potenziale islamico di vittoria.” L. Gatto, La grande storia del Medioevo, p.397.
Questo è il percorso che segue Umar durante
il suo califfato, raccogliendo l’eredità del suo predecessore Abu Bakr, a sua volta primo califfo per
soli due anni dopo la morte di Maometto.
Califfo infatti significa non più di “vicario” o “luogotenente”, mentre sarebbe
blasfemo considerarlo “successore” in quanto nessuno potrebbe prendere il posto
del Profeta fondatore della religione e della sua dimensione politica e sociale (la Umma, comunità islamica) con le prime
grandi vittorie e l’espansione all’interno delle tribù arabe. E così Umar, convertendosi alla nuova fede
dalla sua posizione di accanito oppositore di Maometto, diviene una spada
formidabile. Nei dieci anni di califfato, prima del suo assassinio nel 644 per
mano di uno schiavo persiano, gli arabi compiono le loro conquiste più
importanti per ampiezza e durata soprattutto perché una volta sedate le rivolte
interne l’espansione militare della Umma assume una dimensione globale
iniziando a scontrarsi vittoriosamente con i due più importanti imperi
dell’epoca: “Il bizantino, che governava la Grande Siria e l’Egitto, e il
Persiano Sasanide, che governava l’Iraq e l’Iran… Entrambi gli imperi dovettero
affrontare l’offensiva dei musulmani… Contro i bizantini lo scontro decisivo
ebbe luogo nel 636 presso il fiume Yarmuk, un affluente del Giordano, poco a
Sud del Mar di Galilea. Negli anni successivi i musulmani occuparono la Siria fino
alle montagne del Tauro, che, nonostante frequenti incursioni in Anatolia,
rappresentavano il loro confine dell’epoca. Nel 642 riuscirono anche a cacciare
i bizantini dall’Egitto… Nelle prime spedizioni si faceva sempre ritorno a
Medina, ma man mano che ci si spingeva sempre più lontano il ritorno alla base
di partenza diventava una perdita di tempo… Con il ritiro della potenza
bizantina dall’Egitto e dalla Siria e con il collasso dell’impero sasanide,
queste basi avanzate divennero le sedi dell’amministrazione provinciale. È da
sottolineare che lo scopo principale delle prime spedizioni era di fare bottino
e non diffondere la religione islamica e convertire né estendere lo stato
islamico. Alcune tribù politeiste all’interno dell’Arabia furono costrette con
la forza ad accettare l’Islam, ma altrove la maggior parte degli abitanti era
composta di cristiani, ebrei…”. W. M. Watt, Breve
storia dell’Islam, pp.33-34.
Contestualmente a questa imponente
avanzata, Umar fa in tempo a disegnare l’architettura base per la struttura
amministrativa dello stato islamico, utilizzando anche personale cristiano,
israelita o zoroastriano. Pugnalato poi a tradimento, sul letto di morte
organizza un Consiglio di Compagni del profeta (Shura) che attraverso una consultazione, scongiurando potenziali
conflitti per la successione, designa il nuovo califfo Othmàn che proseguirà la politica di espansione: “Umar, dopo
Maometto, è stato il principale artefice della diffusione dell’Islam, che senza
le sue rapide e prodigiose conquiste non avrebbe avuto le dimensioni odierne.
La maggior parte del territorio conquistato durante il suo regno, inoltre, è
rimasto arabo”. M. Hart, Cit., p.355.
UNA
CROCIATA AL CONTRARIO PER UN DIO DI TUTTI E POZZI DI POCHI?
Fin qui nulla di sconvolgente nel
millenario scontro tra popolazioni e idee per mezzo della guerra e del sangue,
ma resta la necessità di capire le ragioni più profonde per cui ancora oggi un
sistema di potere ancorato ad un dio, un profeta e un testo sacro (Allah,
Maometto e Corano) insegua un modello ecumenico aggressivo fuori dalla
storia. Sembra chiaro, ma non lo è affatto, che poggiando su libere
interpretazioni spesso in contraddizione tra loro “il libro si basa sulla
convinzione che Maometto fu un profeta scelto da Dio per adempiere a un compito
particolare, e che lo stesso Dio è dietro l’espansione dell’Islam in tutto il
mondo”. W. M. Watt, Cit., p.7.
Perché contraddizioni? Perché sono
esattamente opposte tra loro, all’interno delle fazioni della Umma createsi nel
corso dei secoli, le tesi secondo cui il Corano spinge alla guerra santa o no;
vero è che “la tradizione islamica, quindi è tutt’altro che monolitica:
viceversa, è il prodotto di molti secoli di studio e dibattito interno. I
dibattiti attraverso cui il pensiero islamico ha preso forma rivelano molto
anche a proposito del jihad, un
concetto spesso travisato in Occidente. Nel Corano e nella tradizione, il jihad
è inteso come ‘lotta in nome della fede, o in difesa della fede’. Questo
termine complesso, assai discusso nella letteratura islamica, è stato oggetto
di moltissime interpretazioni e controversie, nel corso dei secoli. Tuttavia,
la maggior parte degli studiosi concorda su una cosa: esso contiene un
imperativo, valido per ogni musulmano e per la comunità nel suo insieme, a
lottare contro ciò che potrebbe corrompere la parola di Dio e causare
disarmonia”. M. S. Gordon, Capire l’Islam,
pp. 63-64
Niente di più pericoloso in questa totale
vaghezza, con il risultato della nascita di gruppi estremisti che hanno scelto
di interpretare il jihad in termini militanti e globali, appunto come “guerra
santa contro gli infedeli da convertire anche con la violenza, per introdurre
il dominio dell’Islam ossia della più completa volontà di Dio”. L. Gatto, Cit., p.394.
Si tratterebbe, insomma, di una crociata al
contrario? Mentre le armi continuano ad incrociarsi, serve una risposta
definitiva che può arrivare ancora una volta solo dall’interno della Umma per
determinare più profondamente il ruolo dell’Islam nel mondo: “La questione
fondamentale è se l’Islam sia differente da tutte le altre religioni e sistemi
filosofici, cosicché l’idea di una sfera peculiare all’Islam abbia ancora un
senso, o se sia semplicemente una religione fra molte altre, sia pure da certi
punti di vista superiore alle altre. I musulmani dalla mentalità liberale
sembrano accettare in pratica che vi siano altre religioni collocate più o meno
allo stesso livello dell’Islam, ma molti tradizionalisti sembrano ancora
pensare che l’Islam abbia una posizione assolutamente unica in campo religioso.
Affinché l’Islam assuma un posto appropriato in un mondo multireligioso, è
importante che i musulmani ammettano che anche nelle altre religioni vi è
almeno una buona parte di verità”. W. M. Watt, Cit., p.122.
In attesa di sciogliere
questo nodo che potrebbe rasserenare i rapporti all’interno della comunità
internazionale e disegnare un vero percorso di progresso per molte popolazioni
tra Medio Oriente, Asia e Nord Africa, possiamo continuare ad interrogarci
sulla validità del concetto “religione
oppio dei popoli”: un po’ un inganno per gli inconsapevoli mentre i
tagliagole mirano in realtà ai pozzi petroliferi…??