15 gennaio 2013

VERDI, UN UOMO SOLO IN COMPAGNIA DELLA NAZIONE

Il profilo umano di un genio sopravvissuto suo malgrado a tutto: agli amori, agli ideali e all’arte stessa. Nella sua opera l’esatta identificazione con gli ardori di libertà del suo tempo. Protagonista assoluto di un’epoca musicandone le ambizioni popolari e calando il sipario della vita in silenzio

DELUSIONI E TRAGEDIE CORNICE DI UN SOMMO DESTINO RISORGIMENTALE
Umili origini, tragedie familiari e una giovanile bocciatura al Conservatorio di Milano sono la pesante cornice dell’esistenza di Giuseppe Verdi: inno vivente del Risorgimento italiano, cioè di un mosaico geografico che cerca di farsi Patria e che trova nella sua opera musicale “l’idea dell’Italia come comunità di lingua e di cultura che è di gran lunga precedente alla costituzione unitaria e allo stesso Risorgimento”. G. Spadolini, Gli uomini che fecero l’Italia, p.394.

È impossibile slegare Verdi dagli influssi dell’epoca in cui vive e compone. Indiscutibile la sua grandezza ma i risultati sarebbero stati gli stessi senza il formidabile palcoscenico di quella parabola storica? Non si intende sminuire il valore del personaggio, ma esaltare la fortuna di attraversare una fase, che diversamente da altre, non può non assorbire totalmente ogni aspetto del contestuale percorso umano. Verdi è tale perché è “infinito”, ma anche perché la grande impresa dell’indipendenza italiana e dell’unità nazionale ha bisogno di lui: “Uno solo grandeggiò nella musica. Ma vi grandeggiò appunto perché col Risorgimento s’identificò dandogli i suoi slanci, i suoi ritmi, i suoi inni, i suoi cori. Giuseppe Verdi era un compositore di razza, che in qualsiasi epoca e Paese avrebbe svettato. Ma non c’è dubbio che al suo immenso successo molto contribuì la sua capacità d’interpretare come nessuno i sentimenti e gli entusiasmi del tempo. Era la musica di Verdi che scaldando gli animi degli spettatori trasformava gli spettacoli della Scala e della Fenice in manifestazioni di patriottismo. Ed era cantando Verdi che i volontari si avviavano ai campi di battaglia. A tal punto il Risorgimento s’identifica in lui da sembrare un suo melodramma, urlante di trombe e rulli di tamburi. Ma questo non sminuisce la grandezza dell’artista. La caratterizza soltanto”. I. Montanelli, Storia d’Italia 1831-1861, p.464.

Tutto questo sotto un profilo umano provato duramente dagli eventi sin dalla nascita, il 10 ottobre 1813, a Roncole di Busseto vicino Parma. Figlio di Carlo, oste e rivenditore di generi alimentari. Riuscirà a soddisfare i primi istinti della sua precoce vocazione soprattutto grazie al sostegno economico di Antonio Barezzi, negoziante amante della musica e direttore della locale società filarmonica. Il generoso mecenate sa guardar lontano e aiuta Verdi a trasferirsi a Milano dove tenta inutilmente l’ammissione al prestigioso Conservatorio: addirittura respinto per “mancanza di attitudini”. Ma il supporto del Barezzi non viene meno tanto da diventar suo suocero dando in sposa al giovane Verdi la figlia Margherita. Ne consegue un periodo di intensa formazione e grande lavoro che culmina nel 1839 con la rappresentazione di buon successo della sua prima opera alla Scala: l’Oberto, Conte di San Bonifacio. Sembrerebbe prospettarsi una strada in discesa per la sua carriera artistica, ma non è così! Nel giro di tre anni muoiono in sequenza la figlia Virginia Maria, il figlio Icilio Romano e infine di meningite la stessa moglie. L’ovvia conseguenza di queste sventure ricade anche sulle sue composizioni tanto che, nel frattempo, va in scena disastrosamente Un giorno di regno. Un periodo funesto, insomma, che lo spinge a giurare di abbandonare la musica. Ma il suo impresario Bartolomeo Merelli lo sprona intimandogli il rispetto dei contratti in corso per la produzione di alcune opere e “ficcandogli in tasca, quasi a forza, un libretto, di cui Verdi s’impegnò a fare una torcia per accendere il fuoco. (Strada facendo – raccontò più tardi – mi sentivo addosso un malessere indefinibile, una tristezza somma, un’ambascia che mi gonfiava il cuore. Mi rincasai, e con un gesto quasi violento, gettai il manoscritto sul tavolo, fermandomi in piedi davanti. Il fascicolo, cadendo sul tavolo si era aperto; senza saper come, i miei occhi fissano la pagina che stava a me innanzi, e mi si affaccia questo verso: Va’ pensiero, sull’ali dorate!)”. I. Montanelli, Cit, p.468.

È l’eternità che si affaccia nella sua vita e non gli volterà più le spalle!!!

L’INNO VIVENTE ALLA PATRIA
Verdi, dunque, figlio prediletto del suo tempo, del trentennio risorgimentale denso di avvenimenti e passoni: “La storia dell’Italia unitaria può essere raccontata secondo due prospettive contraddittorie. Come storia d’un grande fiume sotterraneo che emerge alla superficie dopo aver attraversato, nascosto e intatto, mille anni di storia europea. E come storia di coincidenze, avvenimenti casuali, calcoli sbagliati, errori generosi. La prima generazione dell’Italia unitaria lavorò, consciamente o inconsciamente, a ricostruire un passato lineare in cui tutto preannunciava la grande redenzione del 1859. Gli scrittori riscoprirono vicende italiane, storie di vita comunale, eroi d’una patria smembrata e oppressa… Riscritto secondo una prospettiva nazionale, questo passato restituiva ai lettori il sentimento d’una profondità storica, il bene prezioso di una continuità temporale. I musicisti interpretarono questa esigenza ancor più degli scrittori e i libretti delle opere di Verdi dicono meglio di qualsiasi trattato quali fossero, negli anni fra il 1830 e il 1860, i gusti e le inclinazioni della società Cisalpina”. S. Romano, Storia d’Italia dal Risorgimento ai nostri giorni, p.11.

Senza dubbio, da quel manoscritto scaraventato sul tavolo in preda alla disperazione, il musicista tira fuori tutta l’ambizione della nazione a “farsi” Italia unica e indivisibile, dopo un esodo millenario da se stessa. È il Nabucco!!! Il richiamo all’esodo non è una suggestione ma incarna per gli spettatori italiani dell’epoca una condizione politica e storica paragonabile a quella degli ebrei soggetti al dominio babilonese di Nabuccodonosor II. Si tratta dell’opera più risorgimentale di Verdi in scena alla Scala nel 1842 e forte di un trionfo che ne fa, probabilmente, il vero inno unitario: “Era un compositore da grande affresco, bisognoso di movimenti scenici di massa, che gli fornissero pretesto ad ampi, gagliardi, unisoni cori. E questo degli ebrei che dal lontano esilio piangono la patria perduta faceva vibrare le sue autentiche corde… Il Va’, pensiero compiva questo miracolo. Orecchiabile com’era, gl’italiani lo fecero subito loro adattandolo alla propria condizione d’esiliati in patria. Quando l’opera fu data alla Fenice di Venezia tutto il pubblico, in piedi, lo riprese a piena voce agitando bandierine tricolori verso i palchi gremiti di ufficiali austriaci. E a Milano gli organetti di barberia lo suonavano per le strade, provocandovi tali ingorghi che più volte la polizia dovette sgomberarle di forza”. I. Montanelli, Cit, p.469.

Da lì in avanti ha inizio una folgorante carriera che sposerà le innate capacità artistiche di Verdi con un suo ruolo involontariamente in linea con la congiuntura storica che ne fa un simbolo politico; basti pensare al grido VIVA V.E.R.D.I. delle platee a riecheggiare il nome di Vittorio Emanuele Re d’Italia. “Dopo l’identificazione fra popolo d’Italia e popolo d’Israele che sola spiegherà nel 1842 il travolgente successo del Nabucco, c’è tutta una serie di opere che, nell’imminenza del 1848, ne anticipano i ritmi, le cadenze, le suggestioni: frammenti di storia italiana o di storia europea, secondo lo spirito del Romanticismo, vissuti in chiave profetica, la musica al servizio della patria, il passato concepito come strumento del presente, l’opera lirica individuata come arma di combattimento, una volta trasferita fuori dal mistero musicale o magistero musicale che fosse”. G. Spadolini, Cit., p.395.

Ecco, pertanto, i cosiddetti “anni di galera” in cui comporrà mediamente un’opera all’anno: I Lombardi alla prima Crociata, Ernani, I due Foscari, Giovanna d’Arco, Alzira, Attila, Macbeth, I Masnadieri, Il Corsaro, La battaglia di Legnano, Luisa Miller, Stiffelio e poi molto altro con Aida, Trovatore e Traviata: “Di musica era turgido, più che comporla se ne liberava… Oramai il teatro lirico italiano era Verdi… Niente e nessuno poteva resistere alla sua forza devastatrice, al suo scrosciante romantico empito”. I. Montanelli, Cit, pp.470-471.

UN SOPRAVVISUTO NEL DISINCANTO DELL’UNITÀ MANCATA
Affermandosi come protagonista della stagione romantica della musica italiana, Verdi svolge un’azione paragonabile a quella di Alessandro Manzoni nella letteratura: “I romanzi pubblicati negli anni che precedono il 1848 sono tutti fortemente marcati da un sentimento di attesa e hanno un significato che trascende il loro valore letterario… I Promessi sposi traducono anzitutto un desiderio: recuperare alle patrie lettere il passato nazionale, sottrarlo agli scrittori stranieri che ne avevano fatto materia di racconti gotici e di cronache italiane”. S. Romano, Cit., p.11.

Ma qual è l’attesa dell’Italia? Tornare ad essere quello che era: “Aveva sempre costituito un’unità geografica. Anche dal punto di vista religioso essa aveva formato praticamente un tutto omogeneo sin dai tempi di Gregorio Magno… Fino al 1861, tuttavia, non era mai stata un’entità politica e si può dire che lo fosse a malapena anche allora… Una certa coscienza nazionale era stata senza dubbio presente in maniera intermittente nel corso dei secoli, ma si era sempre trattato di qualcosa di vago e incerto… La sovranità era stata spezzettata per secoli fra città che godevano di un regime di autonomie e dinastie straniere, interessate le une come le altre a contrastare ogni movimento patriottico di cui non fossero alla testa… È pure certo che l’unificazione venne raggiunta con un’imposizione forzosa sgradita a non pochi italiani”. D. M. Smith, Storia d’Italia dal 1861 al 1997, pp.8-9.

Vedremo bene come lo stesso Verdi – animato da un’evoluzione ideale che lo trova in più fasi mazziniano, liberale, monarchico e infine più propriamente cavouriano – da patriota convinto passa ad un’evidente disillusione per il procedere di un’Italia unita non all’altezza delle sue aspettative. La stessa persona di “Vittorio Emanuele non colpiva l’immaginazione se non al suo livello più basso: i motivi della sua condotta potevano facilmente essere riportati, piuttosto che al patriottismo, a una mera ambizione dinastica…”. D. M. Smith, Cit., p.86.

E infatti il compositore debutta molto svogliatamente anche in politica su pressione del Paese e di Cavour: “Fu eletto deputato alla prima Camera del Parlamento nazionale… ma non partecipò mai ai lavori dell’assemblea… Né migliore sorte ebbe il Senato allorché Vittorio Emanuele II nel 1875 firmò il decreto di nomina dell’alta assemblea. La sua partecipazione non andò oltre il giuramento”. G. Spadolini, Cit., p.397.

In questo suo disincanto soffrirà per la morte dei principali protagonisti del suo tempo sul finire dell’800: da Mazzini a Garibaldi, dal Manzoni a Cavour, dal Re a Pio IX, per non parlare della sua compagna e grande soprano Giuseppina Strepponi. Dopo gli ultimi trionfi, sebbene ottant’enne, con Otello e Falstaff  “Verdi era triste: la musica aveva smesso di zampillare dento di lui. Quando seppe che il Re voleva dargli il Collare dell’Annunziata, lo pregò di astenersi. E quando il Conservatorio di Milano gli chiese il permesso di fregiarsi del suo nome, rifiutò: non aveva ancora digerito la bocciatura di sessant’anni prima, eppoi tutto questo baccano lo infastidiva”. I. Montanelli, Cit, p.481.

E dopo una faticosa longevità, che lo ha predestinato a musicare come nessuno un'epopea storica e politica ben precisa, Giuseppe Verdi si spegne nel 1901 dopo aver lasciato scritto che “per i funerali, basteranno due preti, una candela e una croce”. Così sarà!
Esequie semplici, come lo scorrere della sua vita mai prigioniera del lusso e dei denari guadagnati.
Soprattutto esequie silenziose, senza musica.