Il
profilo umano di un genio sopravvissuto suo malgrado a tutto: agli amori, agli
ideali e all’arte stessa. Nella sua opera l’esatta identificazione con gli ardori
di libertà del suo tempo. Protagonista assoluto di un’epoca musicandone le
ambizioni popolari e calando il sipario della
vita in silenzio
DELUSIONI
E TRAGEDIE CORNICE DI UN SOMMO DESTINO RISORGIMENTALE
Umili origini, tragedie familiari e una giovanile bocciatura al Conservatorio di Milano sono la pesante cornice dell’esistenza di Giuseppe Verdi: inno vivente del Risorgimento italiano, cioè di un mosaico geografico che cerca di farsi Patria e che trova nella sua opera musicale “l’idea dell’Italia come comunità di lingua e di cultura che è di gran lunga precedente alla costituzione unitaria e allo stesso Risorgimento”. G. Spadolini, Gli uomini che fecero l’Italia, p.394.
Umili origini, tragedie familiari e una giovanile bocciatura al Conservatorio di Milano sono la pesante cornice dell’esistenza di Giuseppe Verdi: inno vivente del Risorgimento italiano, cioè di un mosaico geografico che cerca di farsi Patria e che trova nella sua opera musicale “l’idea dell’Italia come comunità di lingua e di cultura che è di gran lunga precedente alla costituzione unitaria e allo stesso Risorgimento”. G. Spadolini, Gli uomini che fecero l’Italia, p.394.
È impossibile slegare Verdi dagli influssi
dell’epoca in cui vive e compone. Indiscutibile la sua grandezza ma i risultati
sarebbero stati gli stessi senza il formidabile palcoscenico di quella parabola
storica? Non si intende sminuire il valore del personaggio, ma esaltare la
fortuna di attraversare una fase, che diversamente da altre, non può non
assorbire totalmente ogni aspetto del contestuale percorso umano. Verdi è tale perché è “infinito”,
ma anche perché la grande impresa dell’indipendenza italiana e dell’unità
nazionale ha bisogno di lui: “Uno solo grandeggiò nella musica. Ma vi
grandeggiò appunto perché col Risorgimento s’identificò dandogli i suoi slanci,
i suoi ritmi, i suoi inni, i suoi cori. Giuseppe Verdi era un compositore di
razza, che in qualsiasi epoca e Paese avrebbe svettato. Ma non c’è dubbio che
al suo immenso successo molto contribuì la sua capacità d’interpretare come
nessuno i sentimenti e gli entusiasmi del tempo. Era la musica di Verdi che
scaldando gli animi degli spettatori trasformava gli spettacoli della Scala e della Fenice in manifestazioni di patriottismo. Ed era cantando Verdi che
i volontari si avviavano ai campi di battaglia. A tal punto il Risorgimento
s’identifica in lui da sembrare un suo melodramma, urlante di trombe e rulli di
tamburi. Ma questo non sminuisce la grandezza dell’artista. La caratterizza
soltanto”. I. Montanelli, Storia d’Italia
1831-1861, p.464.
Tutto
questo sotto un profilo umano provato duramente dagli eventi sin dalla nascita,
il 10 ottobre 1813, a Roncole di Busseto vicino Parma. Figlio di Carlo, oste e rivenditore di generi
alimentari. Riuscirà a soddisfare i primi istinti della sua precoce vocazione soprattutto
grazie al sostegno economico di Antonio
Barezzi, negoziante amante della musica e direttore della locale società
filarmonica. Il generoso mecenate sa guardar lontano e aiuta Verdi a
trasferirsi a Milano dove tenta inutilmente l’ammissione al prestigioso
Conservatorio: addirittura respinto per “mancanza di attitudini”. Ma il
supporto del Barezzi non viene meno tanto da diventar suo suocero dando in
sposa al giovane Verdi la figlia Margherita.
Ne consegue un periodo di intensa formazione e grande lavoro che culmina nel
1839 con la rappresentazione di buon successo della sua prima opera alla Scala:
l’Oberto, Conte di San Bonifacio.
Sembrerebbe prospettarsi una strada
in discesa per la sua carriera artistica, ma non è così! Nel giro di tre anni muoiono
in sequenza la figlia Virginia Maria,
il figlio Icilio Romano e infine di
meningite la stessa moglie. L’ovvia conseguenza di queste sventure ricade anche
sulle sue composizioni tanto che, nel frattempo, va in scena disastrosamente Un giorno di regno. Un periodo funesto,
insomma, che lo spinge a giurare di abbandonare la musica. Ma il suo impresario
Bartolomeo Merelli lo sprona
intimandogli il rispetto dei contratti in corso per la produzione di alcune
opere e “ficcandogli in tasca, quasi a forza, un libretto, di cui Verdi
s’impegnò a fare una torcia per accendere il fuoco. (Strada facendo – raccontò più tardi – mi sentivo addosso un malessere
indefinibile, una tristezza somma, un’ambascia che mi gonfiava il cuore. Mi
rincasai, e con un gesto quasi violento, gettai il manoscritto sul tavolo,
fermandomi in piedi davanti. Il fascicolo, cadendo sul tavolo si era aperto;
senza saper come, i miei occhi fissano la pagina che stava a me innanzi, e mi
si affaccia questo verso: Va’ pensiero,
sull’ali dorate!)”. I. Montanelli, Cit, p.468.
È l’eternità che si
affaccia nella sua vita e non gli volterà più le spalle!!!
L’INNO
VIVENTE ALLA PATRIA
Verdi, dunque, figlio
prediletto del suo tempo, del trentennio risorgimentale denso di avvenimenti e
passoni: “La storia dell’Italia unitaria può essere raccontata secondo due
prospettive contraddittorie. Come storia d’un grande fiume sotterraneo che emerge
alla superficie dopo aver attraversato, nascosto e intatto, mille anni di
storia europea. E come storia di coincidenze, avvenimenti casuali, calcoli
sbagliati, errori generosi. La prima generazione dell’Italia unitaria lavorò,
consciamente o inconsciamente, a ricostruire un passato lineare in cui tutto
preannunciava la grande redenzione del 1859. Gli scrittori riscoprirono vicende
italiane, storie di vita comunale, eroi d’una patria smembrata e oppressa… Riscritto
secondo una prospettiva nazionale, questo passato restituiva ai lettori il
sentimento d’una profondità storica, il bene prezioso di una continuità
temporale. I musicisti interpretarono questa esigenza ancor più degli scrittori
e i libretti delle opere di Verdi dicono meglio di qualsiasi trattato quali
fossero, negli anni fra il 1830 e il 1860, i gusti e le inclinazioni della
società Cisalpina”. S. Romano, Storia
d’Italia dal Risorgimento ai nostri giorni, p.11.
Senza dubbio, da quel manoscritto
scaraventato sul tavolo in preda alla disperazione, il musicista tira fuori tutta
l’ambizione della nazione a “farsi” Italia unica e indivisibile, dopo un esodo
millenario da se stessa. È il Nabucco!!!
Il richiamo all’esodo non è una suggestione ma incarna per gli spettatori
italiani dell’epoca una condizione politica e storica paragonabile a quella
degli ebrei soggetti al dominio babilonese di Nabuccodonosor II. Si tratta dell’opera più
risorgimentale di Verdi in scena alla Scala nel 1842 e forte di un trionfo che
ne fa, probabilmente, il vero inno unitario: “Era un compositore da grande
affresco, bisognoso di movimenti scenici di massa, che gli fornissero pretesto ad
ampi, gagliardi, unisoni cori. E questo degli ebrei che dal lontano esilio piangono
la patria perduta faceva vibrare le sue autentiche corde… Il Va’, pensiero compiva questo miracolo.
Orecchiabile com’era, gl’italiani lo fecero subito loro adattandolo alla
propria condizione d’esiliati in patria. Quando l’opera fu data alla Fenice di
Venezia tutto il pubblico, in piedi, lo riprese a piena voce agitando
bandierine tricolori verso i palchi gremiti di ufficiali austriaci. E a Milano
gli organetti di barberia lo suonavano per le strade, provocandovi tali
ingorghi che più volte la polizia dovette sgomberarle di forza”. I. Montanelli,
Cit, p.469.
Da lì in avanti ha inizio una
folgorante carriera che sposerà le innate capacità artistiche di Verdi con un
suo ruolo involontariamente in linea con la congiuntura storica che ne fa un
simbolo politico; basti pensare al grido VIVA V.E.R.D.I. delle platee a
riecheggiare il nome di Vittorio
Emanuele Re d’Italia. “Dopo l’identificazione fra
popolo d’Italia e popolo d’Israele che sola spiegherà nel 1842 il travolgente
successo del Nabucco, c’è tutta una serie di opere che, nell’imminenza del
1848, ne anticipano i ritmi, le cadenze, le suggestioni: frammenti di storia
italiana o di storia europea, secondo lo spirito del Romanticismo, vissuti in
chiave profetica, la musica al servizio della patria, il passato concepito come
strumento del presente, l’opera lirica individuata come arma di combattimento,
una volta trasferita fuori dal mistero musicale o magistero musicale che fosse”.
G. Spadolini, Cit., p.395.
Ecco,
pertanto, i cosiddetti “anni di galera” in cui comporrà mediamente un’opera
all’anno: I Lombardi alla prima Crociata,
Ernani, I due Foscari, Giovanna d’Arco, Alzira, Attila, Macbeth, I Masnadieri,
Il Corsaro, La battaglia di Legnano, Luisa Miller, Stiffelio e poi molto altro
con Aida, Trovatore e Traviata: “Di
musica era turgido, più che comporla se ne liberava… Oramai il teatro lirico
italiano era Verdi… Niente e nessuno poteva resistere alla sua forza
devastatrice, al suo scrosciante romantico empito”. I. Montanelli, Cit, pp.470-471.
UN
SOPRAVVISUTO NEL DISINCANTO DELL’UNITÀ MANCATA
Affermandosi come
protagonista della stagione romantica della musica italiana, Verdi svolge
un’azione paragonabile a quella di Alessandro
Manzoni nella letteratura: “I romanzi pubblicati negli anni che precedono
il 1848 sono tutti fortemente marcati da un sentimento di attesa e hanno un
significato che trascende il loro valore letterario… I Promessi sposi traducono anzitutto un desiderio: recuperare alle
patrie lettere il passato nazionale, sottrarlo agli scrittori stranieri che ne
avevano fatto materia di racconti gotici e di cronache italiane”. S. Romano, Cit., p.11.
Ma qual è l’attesa dell’Italia?
Tornare ad essere quello che era: “Aveva sempre costituito un’unità geografica.
Anche dal punto di vista religioso essa aveva formato praticamente un tutto
omogeneo sin dai tempi di Gregorio Magno…
Fino al 1861, tuttavia, non era mai stata un’entità politica e si può dire che
lo fosse a malapena anche allora… Una certa coscienza nazionale era stata senza
dubbio presente in maniera intermittente nel corso dei secoli, ma si era sempre
trattato di qualcosa di vago e incerto… La sovranità era stata spezzettata per
secoli fra città che godevano di un regime di autonomie e dinastie straniere,
interessate le une come le altre a contrastare ogni movimento patriottico di
cui non fossero alla testa… È pure certo che l’unificazione venne raggiunta con
un’imposizione forzosa sgradita a non pochi italiani”. D. M. Smith, Storia d’Italia dal 1861 al 1997, pp.8-9.
Vedremo bene come lo stesso Verdi –
animato da un’evoluzione ideale che lo trova in più fasi mazziniano, liberale,
monarchico e infine più propriamente cavouriano – da patriota convinto passa ad
un’evidente disillusione per il procedere di un’Italia unita non all’altezza
delle sue aspettative. La stessa persona di “Vittorio Emanuele non colpiva
l’immaginazione se non al suo livello più basso: i motivi della sua condotta
potevano facilmente essere riportati, piuttosto che al patriottismo, a una mera
ambizione dinastica…”. D. M. Smith, Cit.,
p.86.
E infatti il compositore
debutta molto svogliatamente anche in politica su pressione del Paese e di Cavour: “Fu eletto deputato alla prima
Camera del Parlamento nazionale… ma non partecipò mai ai lavori dell’assemblea…
Né migliore sorte ebbe il Senato allorché Vittorio Emanuele II nel 1875 firmò
il decreto di nomina dell’alta assemblea. La sua partecipazione non andò oltre
il giuramento”. G. Spadolini, Cit.,
p.397.
In questo suo disincanto soffrirà per la morte dei principali protagonisti del suo tempo sul finire dell’800: da Mazzini a Garibaldi, dal Manzoni a Cavour, dal Re a Pio IX, per non parlare della sua compagna e grande soprano Giuseppina Strepponi. Dopo gli ultimi trionfi, sebbene ottant’enne, con Otello e Falstaff “Verdi era triste: la musica aveva smesso di zampillare dento di lui. Quando seppe che il Re voleva dargli il Collare dell’Annunziata, lo pregò di astenersi. E quando il Conservatorio di Milano gli chiese il permesso di fregiarsi del suo nome, rifiutò: non aveva ancora digerito la bocciatura di sessant’anni prima, eppoi tutto questo baccano lo infastidiva”. I. Montanelli, Cit, p.481.
E dopo una faticosa longevità, che lo ha predestinato a musicare come nessuno un'epopea storica e politica ben precisa, Giuseppe Verdi si spegne nel 1901 dopo aver lasciato scritto che “per i funerali, basteranno due preti, una candela e una croce”. Così sarà!
Esequie semplici, come lo scorrere della sua vita mai prigioniera del lusso e dei denari guadagnati.
Soprattutto esequie silenziose, senza musica.
In questo suo disincanto soffrirà per la morte dei principali protagonisti del suo tempo sul finire dell’800: da Mazzini a Garibaldi, dal Manzoni a Cavour, dal Re a Pio IX, per non parlare della sua compagna e grande soprano Giuseppina Strepponi. Dopo gli ultimi trionfi, sebbene ottant’enne, con Otello e Falstaff “Verdi era triste: la musica aveva smesso di zampillare dento di lui. Quando seppe che il Re voleva dargli il Collare dell’Annunziata, lo pregò di astenersi. E quando il Conservatorio di Milano gli chiese il permesso di fregiarsi del suo nome, rifiutò: non aveva ancora digerito la bocciatura di sessant’anni prima, eppoi tutto questo baccano lo infastidiva”. I. Montanelli, Cit, p.481.
E dopo una faticosa longevità, che lo ha predestinato a musicare come nessuno un'epopea storica e politica ben precisa, Giuseppe Verdi si spegne nel 1901 dopo aver lasciato scritto che “per i funerali, basteranno due preti, una candela e una croce”. Così sarà!
Esequie semplici, come lo scorrere della sua vita mai prigioniera del lusso e dei denari guadagnati.
Soprattutto esequie silenziose, senza musica.