19 marzo 2012

CARLO PISACANE, IL "LEONIDA" DEL RISORGIMENTO

Propugnò una rivoluzione sociale di popolo e il popolo lo schiacciò insieme ai suoi 300 “spartani”. Simbolo glorioso di una unità senza unità e di un’Italia senza italiani:
"Io non ho che la mia vita da sacrificare... ed in questo sacrificio non esito punto"

VITTIMA ILLUSTRE NEL PECCATO ORIGINALE DELLA DISUNITÀ D’ITALIA
Con la conclusione per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia vogliamo raccontare la storia di Carlo Pisacane, patriota risorgimentale, le sue idee e la sua caduta. Ma soprattutto ricordare uno dei simboli, in realtà, della disunità d’Italia.
Un’epopea che, come ci spiega Sergio Romano, deriva da circostanze politiche interne e internazionali. Una storia di coincidenze, avvenimenti casuali, calcoli sbagliati, errori generosi, ma anche di clientele, corruzioni, consorterie, contraddizioni e contrasti tuttora irrisolti: “La parola unità, del resto, aveva scarso seguito anche fra coloro che lavoravano consciamente per un profondo mutamento della geografia politica nazionale. Nel 1848 l’obiettivo era una confederazione di Stati italiani sotto la presidenza del Papa; nel 1859, la creazione di un forte Stato italiano nell’Italia Settentrionale, dal Piemonte al Trentino. Gli unitari, nel senso che la parola ebbe dopo il 1860, erano, quantomeno all’origine un gruppo di intellettuali d’estrazione piccolo borghese… La storia dei loro movimenti nell’ultimo decennio che precedette l’unità è fatta di episodi tragici o tragicomici come i moti di Milano del 1853 o la sfortunata spedizione di Pisacane nel 1857… Nei primi un pugno d’insorti cominciarono e terminarono nel giro di poche ore un’insurrezione mal preparata… Nella seconda trecento uomini furono trucidati dai contadini”. S. Romano, Storia d’Italia dal Risorgimento ai nostri giorni, p.16.

Pisacane si spiega in questo: nel peccato originale che ha segnato una unità senza unità, in un’Italia senza Italiani. Il cuore del suo pensiero ruotava attorno all’idea che per avere successo la rivoluzione nazionale doveva partire da una rivoluzione sociale. Quindi appropriarsi della concezione di Stato del popolo e partire assolutamente dal basso. Le masse andavano necessariamente coinvolte nel movimento rivoluzionario, chiamate in prima linea nel combattimento a difesa della propria patria. L’obiettivo era l’emancipazione del popolo e la rivoluzione agraria e contadina.

“In mezzo al frastaglio d’utopie, d’illusioni, d’intuizioni, di esperienze e di equivoci, che ha caratterizzato la vita sociale dell’Italia risorgimentale e in essa i trasalimenti di socialismo, una sola figura si caratterizza e si distingue da tutte le altre: Pisacane…
…È certo l’unico che ha avvertito l’esigenza di una radicale rivoluzione in un mondo e in un popolo dove si ondeggiava e sbandava tra la conservazione e la riforma, solo qualche volta spostandosi sul terreno dell’insurrezione. È l’unico che ha posto un’istanza di novità in un ambiente vecchio, stanco, dove da secoli dominava il compromesso, dove ogni speranza di novità affogava nel compromesso. È l’unico che ha condotto una lotta spietata contro la vecchia retorica italiana, sia quella dei reazionari, sia quella dei riformatori, contro l’antica retorica della romanità e del Medioevo, contro la nuova retorica del garibaldinismo e del sabaudismo.
È l’unico, infine, che nel problema italiano ha sentito che cosa si dovesse risolvere prima di tutto: immettere la grande massa assente degli italiani nel circolo della vita italiana, rompere il tradizionale divorzio fra popolo e società, fare della nazione la risultante dello sforzo popolare e l’espressione dello spirito popolare.”. G. Spadolini, Gli uomini che fecero l’Italia, p.177.

UNA RIVOLUZIONE PER UNA PATRIA SENZA POPOLO
Il Pisacane, dunque, apportò un notevole contributo in termini di questione sociale all’interno della varie sfaccettature mazziniane, liberali, federaliste del pensiero politico italiano del tempo: “Proprietà privata e disuguaglianza sociale sono per il Pisacane la causa della rovina delle società e delle civiltà. Delle corruzioni e decadenze della Magna Grecia, di Roma, dell’Italia comunale la cagione fu sempre la divisione nazionale in ricchi e poveri, cagionata a sua volta dal diritto di proprietà… Secondo il Pisacane non vi sono che due soluzioni: o libera associazione o dispotismo militare… Per lui la libertà significa libero esercizio delle proprie facoltà fisiche e morali, limitato dal mondo esteriore, dai bisogni, dai mezzi per soddisfarlo. La libertà è un sentimento innato e la si gusta senza nessuna speciale educazione; essa non ammette restrizioni di sorta… La società futura dovrà essere dunque fondata sulla libertà assoluta e la libera associazione: a ogni individuo tutti i mezzi materiali per il pieno sviluppo delle sue facoltà; nessun impegno non consensuale; sacro e inviolabile il frutto del proprio lavoro…”. L. Salvatorelli, Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, pp.355-360.

Insomma, un vero e proprio progetto politico-sociale che partendo dal socialismo si indirizzò ben presto verso inclinazioni anarchiche: bandire le proprietà private, le fabbriche e i terreni dovevano appartenere al popolo, rendere più semplici le istituzioni sociali: “Ecco il suo socialismo: socialismo volontaristico, non materialistico, dove l’uomo è creatore della sua storia, costruttore della sua realtà; socialismo non classistico nelle proprie finalità, in quanto dalla classe parte per arrivare a uno nuova società… Socialismo non anazionale, internazionale, ma nazionale, in quanto della nazione faceva il centro della nuova costituzione sociale… Sentì l’imporsi del problema morale, la necessità cioè di educare ed elevare il proletariato a una funzione di classe dirigente attraverso una libera esperienza associata o di gruppo, tale da fargli acquistare quello spirito di responsabilità e di sacrificio che era necessario”. G. Spadolini, Cit., pp.178-179.
 
Nel concreto egli abbozzò una sorta di ordinamento collettivistico: “Le terre sarebbero state spartite fra i comuni, e coloro che si dedicano a coltivarle si assocerebbero con divisione uguale del guadagno netto; i capitali industriali sarebbero proprietà della nazione, e tutti gl’impiegati di ogni stabilimento industriale costituirebbero una società; i commercianti pure sarebbero organizzati in società… Indipendenti sono anche i comuni; i funzionari sono eletti dal popolo e sempre revocabili; un consiglio in ogni comune, un congresso nazionale a suffragio universale, revocabili e sindacabili; unica imposta la progressiva sul reddito netto di ogni associazione. La sovranità è nella nazione intera, senza delega, coll’abolizione di ogni gerarchia; il popolo è giudice supremo, con diritto illimitato di appello ad esso. Da questa società Pisacane si aspetta la possibilità per ciascuno di raggiungere il massimo sviluppo delle sue facoltà fisiche e morali, senza che la libertà turbi l’eguaglianza. In essa il sentimento sarà in ognuno d’accordo con la ragione”. L. Salvatorelli, Cit., pp.360-361.

Niente di tutto questo si realizzò: “Dato che il Risorgimento fu una guerra civile fra le vecchie e le nuove classi dirigenti, i contadini rimasero neutrali salvo per quel tanto che esso venne ad intrecciarsi accidentalmente con la perenne guerra sociale da loro stessi combattuta. Non nutrivano alcun amore per l’unità d’Italia, e probabilmente non si resero conto di ciò che il termine significasse finché non penetrò nelle loro case sotto forma di prezzi e imposte maggiori e di coscrizione obbligatoria. La loro tendenza istintiva era di resistere a qualsiasi esercito patriottico che sopraggiungesse a requisire le loro scarse provviste alimentari… Il patriota Pisacane era stato ucciso nel 1857 da quegli stessi contadini napoletani che aveva voluto liberare”. D. Mack Smith, Storia d’Italia dal 1861 al 1997, pp.49-50.

Sulla connotazione “classista” della rivoluzione Cavour scriveva: “In Italia una rivoluzione democratica ha scarse probabilità di successo. Per rendersi conto di ciò è sufficiente analizzare quali sono gli elementi che compongono il partito che propugna un rivolgimento politico. Questo partito non incontra che scarse simpatie fra le masse le quali, ad eccezione di alcune categorie cittadine, sono di solito attaccate alle istituzioni tradizionali del paese. La sua forza maggiore risiede quasi esclusivamente nella media e in parte nell’alta borghesia”.
Ne venne fuori che il cosiddetto popolo minuto rivestì un ruolo del tutto irrilevante ai fini del movimento patriottico: “Per inserirsi intimamente nella vita e nella coscienza italiana, il Risorgimento politico aveva bisogno di una ulteriore rivoluzione sociale, una rivoluzione che fosse in grado di attirare al governo le simpatie popolari e convincere la classe dirigente che le riforme sociali potevano costituire un mezzo di stabilità politica. Affinché il processo di unificazione politica potesse essere completato, era necessario condurre il popolo minuto in seno alla grande corrente della vita nazionale, e la riluttanza ad imparare questa lezione avrebbe imposto all’Italia nei novant’anni a seguire prove assai dure”. D. Mack Smith, Cit., p.54.

ERAN 300, ERAN GIOVANI E FORTI, E SONO MORTI…
Così recitava una poesia in onore di Pisacane che si mosse proditoriamente come  Leonida, re di Sparta, al valico angusto e impervio delle Termopili contro i Persiani sbaragliandone più di 20.000, ma finendo tradito da un pastore greco che indicò ai nemici come prendere alle spalle gli spartani. Alla fine della battaglia Leonida morto venne decapitato e crocefisso.
E in qualche modo così fece Pisacane imbarcandosi a Genova il 26 giugno 1857 con l’obiettivo di “sollevare il Mezzogiorno con un pugno di volontari… Si impadronì del vapore sbarcando nell’isola di Ponza, dove sorprese la guarnigione borbonica e liberò i detenuti, in maggioranza criminali o soldati in punizione che si aggregarono a lui. Quindi raggiunse il luogo convenuto con i democratici meridionali, Sapri, nel Golfo di Salerno dove avrebbe dovuto incontrare centinaia di contadini armati per dare inizio alla rivoluzione. Non trovò nessuno: era stata insufficiente la preparazione del moto e mancavano forze disposte all’azione. Il 2 luglio la piccola banda fu annientata a Sanza”. A. Scirocco, Giuseppe Garibaldi, p.184.

Più precisamente la notizia dell’attacco a Ponza raggiunse la polizia borbonica che, temendo una rivolta collettiva del popolo, diffuse la falsa notizia che una banda di malviventi aveva preso d’assedio l’isola. Venuti a conoscenza del fatto, i contadini allarmati imbracciarono le armi e costrinsero alla ritirata gli uomini di Pisacane.
L’1 luglio approdarono sulle coste di Padula dove si scontrarono con i soldati del regno, ma vennero successivamente accerchiati dal popolo che non rendendosi conto dei veri propositi della spedizione massacrarono tutti i membri della spedizione. Non è accertato se Pisacane sia stato ucciso o se, scampato all’ira dei contadini, abbia deciso di togliersi la vita.

Fu idee e azione, dunque, Carlo Pisacane nato a Napoli nel 1818 da una famiglia aristocratica. Si formò alla scuola della Nunziatella, il collegio militare di appartenenza borbonica. Di educazione severamente rigida, i suoi studi si concentrarono principalmente sulla storia e dottrina bellica, con poca attenzione, invece, alle materie umanistiche. Nel 1840 la sua prima responsabilità militare a Gaeta per la conduzione dei lavori ferroviari Napoli-Caserta.
Divenne un convinto sostenitore della lotta armata per liberare la sua Italia dall’esercito straniero e raggiunse a Roma i suoi compagni di battaglia Mameli, Garibaldi e Mazzini. E, proprio con loro, il 9 febbraio 1849 fondò la Repubblica Romana.
 
            (Mameli)                              (Garibaldi)                                    (Mazzini)

Con la sconfitta da parte dell’esercito francese, venne arrestato e condotto nel carcere di Castel Sant’Angelo. Liberato poco dopo, prese la via dell’esilio passando da Marsiglia a Losanna a Londra. Proprio nella capitale inglese sviluppò le sue idee politiche avvicinandosi agli ambienti socialisti. Idee che fissò nel saggio Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49 con l’esposizione delle sue teorie rivoluzionarie, approfondite nel periodo londinese. Poi pubblicò i suoi Saggi storici, politici, militari sull’Italia. Nel frattempo nel Sud iniziavano i primi tumulti popolari antiborbonici. Motivato da quegli eventi Pisacane immaginò che il suo piano di ribellione poteva avere inizio. In conclusione sacrificò la sua vita ad un ideale ma, gli italiani – più che l’Italia – non nacquero.

Questo è anche il risultato di un profondo isolamento del nostro patriota, giacché il suo socialismo “restò senza collegamenti con il nascente socialismo europeo… Non stabilì intese con gli altri movimenti nazionali italiani, dai quali, dopo la sua partecipazione alle vicende del ’48-49… e poi alla Repubblica romana come Capo di Stato Maggiore, il Pisacane era considerato un eretico e un solitario. Non esercitò infine influenze su alcuna rilevante frazione del popolo italiano… Egli sarà accolto a roncolate sulle spiagge del napoletano, nel momento in cui si illudeva di attuare la rivoluzione politica in funzione di quella sociale. Un tragico epilogo che coronava la fine dell’utopia nell’intera stagione del Risorgimento”. G. Spadolini, Cit., pp.181-182.
 
TESTAMENTO POLITICO* – Genova, 24 giugno 1857
Nel momento d’avventurarmi in una intrapresa risicata, voglio manifestare al paese la mia opinione per combattere la critica del volgo, sempre disposto a far plauso ai vincitori e a maledire i vinti.
I miei princìpi politici sono sufficientemente conosciuti; io credo al socialismo, ma ad un socialismo diverso dai sistemi francesi, tutti più o meno fondati sull’idea monarchica e dispotica… Il socialismo di cui parlo può definirsi in queste due parole: libertà e associazione.

Io sono convinto che le strade di ferro, i telegrafi elettrici, le macchine, i miglioramenti dell’industria, tutto ciò finalmente che sviluppa e facilita il commercio, è da una legge fatale destinato ad impoverire le masse fino a che il riparto dei benefizi sia fatto dalla concorrenza. Tutti quei mezzi aumentano i prodotti, ma li accumulano in un piccolo numero di mani, dal che deriva che il tanto vantato progresso termina per non esser altro che decadenza. Se tali pretesi miglioramenti si considerano come progresso, questo sarà nel senso di aumentar la miseria del povero per spingerlo infallibilmente a una terribile rivoluzione, la quale cambiando l’ordine sociale metterà a profitto di tutti ciò che ora riesce a profitto di alcuni.
Io sono convinto che l’Italia sarà grande per la libertà o sarà schiava: io sono convinto che i rimedi temperati, come il regime costituzionale del Piemonte e le migliorie progressive accordate alla Lombardia, ben lungi dal far avanzare il risorgimento d’Italia, non possono che ritardarlo.
Le idee nascono dai fatti e non questi da quelle, ed il popolo non sarà libero perché istrutto, ma sarà ben tosto istrutto quando sarà libero… Le cospirazioni, i complotti, i tentativi di insurrezione sono, secondo me, la serie dei fatti per mezzo dei quali l’Italia s’incammina verso il suo scopo, l’unità…
Io sono convinto che nel mezzogiorno dell’Italia, la rivoluzione morale esiste: che un impulso energico può spingere le popolazioni a tentare un movimento decisivo ed è perciò che i miei sforzi si sono diretti al compimento di una cospirazione che deve dare quell’impulso. Se giungo sul luogo dello sbarco, che sarà Sapri, nel Principato citeriore, io crederò di aver ottenuto un grande successo personale, dovessi pure lasciar la vita sul palco.
Semplice individuo, quantunque sia sostenuto da un numero assai grande di uomini generosi, io non posso che ciò fare, e lo faccio. Il resto dipende dal paese, e non da me. Io non ho che la mia vita da sacrificare per quello scopo ed in questo sacrificio non esito punto...


                                                                  Sottoscritto
         Carlo Pisacane

9 marzo 2012

ALFREDO ROCCO, L’ARCHITETTO DELLO STATO TOTALITARIO

L’idea dello Stato Nuovo e dell’imperialismo nell’azione politica e culturale del giurista del fascismo. Cavalcò le dottrine nazionaliste del suo tempo e concepì una struttura di dominio legalitario per la “gestione” della società. Nelle sue teorie i valori di gerarchia, autorità, socialità che “amministravano” organicamente la vita civile della nazione. Nulla al di fuori della Legge per l’armonizzazione di tutti gli interessi pubblici
 
UN UOMO IN UN’IDEOLOGIA, SOLO DOPO UNA BIOGRAFIA
Quella di Alfredo Rocco non è solo un’illustre vicenda umana e politica, ma un intreccio ideologico che, sin dalla genesi delle teorie nazionaliste, lo vide “architetto” dell’ambizione di riorganizzazione dello Stato tra la fine dell’Italia Liberale e la formazione del regime fascista. Da qui, principalmente in qualità di ministro di Grazia e Giustizia dal 1925 in poi, una serie di leggi fondamentali sulle prerogative del capo del governo, sulla facoltà dell’esecutivo di emanare norme giuridiche, sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro, sulla riforma generale dei codici.
Ma non stiamo parlando di un’opera legislativa supinamente sottomessa ai dettami del nuovo corso mussoliniano. La specificità di Alfredo Rocco è aver importato un pensiero complesso quale il rocchismo nella fase di edificazione della “nuova Italia” fascista. Lo si evince nelle premesse di quanto dichiarò egli stesso al Senato nel dicembre 1925: “In Italia è avvenuto qualcosa di molto grave e di molto decisivo. Un mutamento di regime, quindi non solo di metodo di governo, ma di mentalità, di spirito politico, di concezione dello Stato. L’intendimento che ha mosso il governo a proporre tutta questa serie di riforme legislative è, principalmente, quello di costruire una nuova legalità per rientrare nella legalità”. R. De Felice, Mussolini il fascista, l’organizzazione dello Stato fascista 1925-1929, p.162.

“Una nuova legalità per rientrare nella legalità”, non un gioco di parole ma l’essenza della visione personale del giurista che traiamo proprio dall’interpretazione del De Felice: “nel richiamo vi era una sorta di sdegnoso rifiuto di dissimulare o negare l’illegalismo fascista dei primi anni, dietro di esso si intuisce anche la preoccupazione non solo di legalizzare questo illegalismo ma soprattutto di mettere al sicuro da ogni velleità rivoluzionaria fascista il nuovo Stato, il nuovo ordine.
E che questa non sia solo una nostra impressione ci pare confermato dallo spirito e dalla lettera della legge 24 dicembre 1925 sulle attribuzioni e prerogative del capo del governo, che più di un fascista considerò un abilissimo espediente di Rocco e del conservatorismo italiano per impedire che l’esecutivo (cioè in pratica Mussolini) si rafforzasse non solo a danno delle istituzioni parlamentari ma anche a danno della Corona, le cui prerogative la legge ribadì esplicitamente – che il governo del Re è emanazione del potere regio e non già del Parlamento e deve godere la fiducia del Re”. R. De Felice, Cit., pp.166-67.

Questo fu Alfredo Rocco, nato a Napoli nel 1875. Dalla guerra di Libia in poi protagonista di tutti gli atti che segnarono la storia del nazionalismo italiano. Nel primo dopoguerra iniziò a guardare con interesse al nuovo fenomeno fascista e fu uno dei primi nazionalisti a cogliere nel movimento delle camicie nere la possibilità di restaurare e riorganizzare lo Stato. Nel 1921 eletto deputato a Roma nella lista dei blocchi nazionali e, dopo la Marcia su Roma, nominato prima sottosegretario al Tesoro e, dal 31 dicembre 1922, al ministero delle Finanze sino al marzo 1929. Dal marzo al settembre dello stesso anno fu sottosegretario per l’assistenza militare e le pensioni di guerra.
Riconfermato deputato nella XXVII legislatura fu eletto, il 27 maggio 1924, Presidente della Camera restando in carica fino al 5 gennaio 1925, quando divenne ministro di Grazia e Giustizia. Da quel momento sino al 1932 la sua attività si concretizzò nell’impianto di leggi e provvedimenti brevemente sopra descritti. In particolare, legò il suo nome, con effetti ancora attuali, alla codificazione penale del fascismo ispirata ad un sistema di perfezione tecnica e repressione di ogni attività politicamente rilevante nei confronti del regime dittatoriale. Con la nomina a senatore nel 1934 si poté dire conclusa la sua opera.


Socialisteggiante nella prima giovinezza, Rocco passò verso il 1907 al radicalismo, distinguendosi nel III congresso nazionale di Bologna con la discussione sulla definizione di un nuovo orientamento politico dell’Italia: di fronte ai grandi mutamenti sociali avvenuti attraverso lo sviluppo industriale e la modernizzazione, le istituzioni, i governi liberali e i partiti sembravano restare gravemente indietro. In quella sede venne approvato un suo ordine del giorno sull’attuazione dello stato giuridico degli impiegati per favorirne la libertà di associazione escludendo tuttavia il diritto all’ostruzionismo e di sciopero. Chiusa questa breve parentesi politica tornò alla sua brillante carriera accademica in Diritto commerciale e allo studio dei problemi dello Stato e dell’intreccio sistematico tra partiti, sindacati e classi.

PREMESSA PER UN MATTATORE TRA NAZIONALISMO E IMPERIALISMO
Rocco e il nazionalismo si incontrarono in un momento in cui l’Italia era scossa da avvenimenti cruciali, tra il 1911 e il 1913: la guerra di Libia, le prime elezioni a suffragio universale, la crisi del giolittismo, la radicalizzazione degli scontri sociali ecc. tuttavia bastò poco all’uomo per imporre la sua dottrina economico-sociale come principio fondamentale ed esclusivo di tutta l’ideologia nazionalista. È pertanto necessario, prima di evidenziare il ruolo del personaggio, ripercorrere i passaggi salienti di tutta l’esperienza del nazionalismo italiano dalle sue origini culturali fino alla trasformazione in vero e proprio movimento politico che tanta parte svolse e rappresentò contro il sistema giolittiano, in eventi epocali come la Grande Guerra e nella fervida passione politica del primo dopoguerra fino al fascismo.
 
Il movimento nazionalista italiano venne formandosi tra il 1903 ed il 1910 con i suoi elementi ideologici fondamentali attorno all’idea dello “Stato forte”, dell’espansione imperialista, della “nazione proletaria, del consenso plebiscitario e del superamento della democrazia liberale. Francesco Coppola, tra i massimi protagonisti dell’Associazione Nazionalista Italiana (Ani), parlò del nazionalismo come di “un’ideologia essenzialmente imperialista, e, quindi, conservatrice all’interno e rivoluzionaria all’esterno, così come si conviene ad un popolo risorgente e povero”. Con questo si intendevano affermare peculiarità esclusivamente italiane, in risposta alla polemiche sulla presunta derivazione da modelli francesi: dal monarchico Charles Maurras o dal repubblicano Maurice Barrès.
 
La propensione imperialistica in definitiva scaturì in tutto e per tutto da una nuova politica espansionistica di radici europee, a partire dalla seconda metà dell’800, presentandosi inizialmente con la tendenza alle “porte chiuse”, con la creazione di spazi economici riservati in cui l’apparato produttivo di una singola nazione potesse godere di privilegi particolari preclusi ai concorrenti stranieri. Al di là dei vantaggi che gli imperi coloniali sembravano poter riscuotere in termini militari o economici, essi apparivano sempre di più – soprattutto agli intellettuali, e così anche in certi paesi – come veri e propri prolungamenti o retroterra delle loro patrie.
  

Dapprima in Gran Bretagna l’imperialismo sembrò un rimedio per superare il sempre più inequivocabile declino che la supremazia industriale e commerciale andava manifestando. Gradatamente, al posto della vecchia concezione puramente economica dell’impero si impose un imperialismo mirato essenzialmente all’estensione e alla forza militare. In altre parole non era più sufficiente guidare i mercati o la borsa, ma diventava necessario impossessarsi delle materie prime e del potere politico.
Infatti, dai primi nuclei nazionalisti italiani l’imperialismo contemporaneo veniva visto come una realtà progressiva alle cui regole del gioco sarebbe stato autolesionistico sottrarsi. Esso appariva, anzi, uno stimolo insostituibile al rinnovamento interno della nazione e nello stesso tempo era presentata come una “formidabile lezione ideologica da cui poter ricavare una smentita ed una confutazione inappellabile dei miti democratico-progressisti e delle convenzioni ipocrite delle maggioranze parlamentari”. La rivista fiorentina Il Regno, del 1903, trasse spunto da questa impostazione per fornire suggerimenti essenzialmente pedagogici alla nazione italiana, più specificamente alla classe dirigente borghese cui spettava l’attuazione di una decisa politica di affermazione nazionale. In particolare l’espansionismo, oltre che come strumento per la conquista di risorse e spazi, era considerato soprattutto un impulso formidabile per il rinnovamento interno del Paese.
Una volta assorbito l’imperialismo come colonna portante di tutta l’ideologia nazionalista, lo sviluppo di quest’ultima va legato ad almeno tre fasi: il congresso fiorentino del 1910, gli anni tra il 1910 e il 1914, il Congresso di Milano del 1914 che ebbe in Rocco il mattatore fino alla fusione organica con il fascismo nel 1923; imponendo con tutta la sua veste reazionaria il ruolo di rovesciamento del “diciannovismo socialisteggiante delle origini”. Tra tutti questi intervalli, il 1914 rappresenta una data fondamentale in quanto il nazionalismo assunse una precisa fisionomia ed un concreto programma d’azione politica nella vita pubblica italiana. Un ruolo via via crescente soprattutto grazie all’esperienza di Enrico Corradini che, già in apertura del Regno, chiamò a raccolta “coloro che risorgono per reagire alla viltà della presente ora nazionale contro le furie del numero… scatenate contro tutti i valori in un impeto caotico di reazione alla pochezza della borghesia italiana diventata la sentinella del socialismo sentimentale”.
Furono le teorie di Corradini a diventare un faro per il nazionalismo italiano e lo stesso Rocco. Egli sottolineava la necessità assoluta, per l’Italia, di impegnarsi in un espansionismo di tipo militare, non avendo una forza elevata in industria e commerci. Attribuiva una grande importanza ai fattori politici, militari e territoriali che stavano all’origine delle maggiori economie capitalistiche. Riteneva indispensabile, pertanto, che “la borghesia di governo” creasse i presupposti per l’ulteriore sviluppo dell’economia; anche attraverso una reazione contro la lotta di classe disegnando i contorni di una nuova nazione pacificata all’interno e competitiva all’esterno. Sotto la sua guida il nazionalismo italiano arrivò all’assise fiorentina del 1910 in cui, con la relazione su Classi proletarie: Socialismo, nazioni proletarie, egli offrì la prima carta ideologica al movimento quale mezzo per l’Italia di apprendere il valore della lotta internazionale così come il socialismo insegnava al proletariato il valore della lotta di classe.
In quell’occasione nacque l’Ani – o Partito Nazionalista – che per inserirsi nella vita politica italiana sfruttò come prima vera opportunità le polemiche sorte intorno alla guerra di Libia, invocata come obiettivo storico dal fortunato settimanale – poi quotidiano – L’Idea Nazionale. Proprio con l’impresa libica l’Ani acquisì compattezza e mordente, sostenendo che in politica estera lo sbocco doveva essere irrimediabilmente  imperialista e considerando l’espansione – ancora secondo ulteriori teorizzazioni corradiniane – un diritto delle nazioni proletarie come l’Italia a scapito di quelle ricche ma in declino come l’Inghilterra e la Francia per via della loro scarsa potenza demografica. Accanto a ciò, i nazionalisti perseguivano anche una riforma radicale della politica interna per trasformare la nazione e porla in condizioni ottimali per svolgere le sue funzioni storiche.
Così al congresso di Roma del 1912 trionfò la netta opposizione al Partito Socialista, ai clericali ed alla classe dirigente liberale “rei di aver ridotto gli interessi della nazione appiattendola sulle lenti paludi del compromesso giolittiano, portando in sé i germi dell’individualismo e dell’anarchia”. Si delineò pertanto la funzione sovversiva della nuova ideologia che diventerà via via antidemocratica e antiparlamentarista. La volontà di combattere per la nuova Italia aprì, tra l’altro, il complesso dibattito sullo “Stato Nuovo” che Rocco cercò invano di realizzare a causa delle necessità di compromesso con il regime fascista che indebolì fortemente la sua vena idealista. Pertanto, il nazionalismo, alla vigilia della I Guerra Mondiale, si presentò con una struttura ben diffusa – soprattutto al Nord – e con un supporto di stampa capillare: Regno, L’Idea Nazionale, La Voce e tante altre piccole riviste.
Allo scoppio del conflitto la sua fisionomia era ormai definita: antiliberale, antidemocratica, antisocialista, antimassonica, protezionista in politica interna, imperialista e rivoluzionaria in politica estera. Agitò impetuosamente le polemiche impostando la visione di una guerra imperialista volta ad assicurare all’Italia il dominio dell’Adriatico e una posizione di superiorità nei Balcani. Ma quando, ormai, nel 1918 era evidente il fallimento delle aspirazioni espansionistiche italiane, il nazionalismo iniziò a porre le premesse della sua opera di sovversione legandola al mito d’annunziano della Vittoria mutilata e contribuendo ampiamente alla crisi dello Stato liberale.

ROCCO E LA TEORIA DELLA SOCIETÀ ORGANICA REGOLATA DAL “SUPER-STATO”
Furono i fermenti tra il 1911 e il 1914 a ricondurre Rocco all’attività politica fondata su una drastica critica al liberalismo e alla degenerazione dei partiti risorgimentali nel trasformismo. Escluso Francesco Crispi, egli collegava la crisi politica italiana all’assenza di una grande politica nazionale che poteva sorgere soltanto dal rafforzamento dello Stato e dall’imporsi dell’Italia come grande potenza. Condannava inappellabilmente il liberalismo, il socialismo e la democrazia identificandoli con l’individualismo giusnaturalista visto come il peggiore di tutti i mali perché portatore della disgregazione dello Stato e di gravi lacerazioni sociali. Fece sua, inoltre, la teoria corradiniana dello scontro tra nazioni proletarie e nazioni capitalistiche. In questo modo si radicò in lui la convinzione che solo “l’alternativa nazionalista” potesse fornire le risposte necessarie all’Italia diventandone, dunque, il più abile organizzatore ed il principale teorico. La forza del suo pensiero, raccolto nella relazione I principi fondamentali del nazionalismo economico, emerse definitivamente nel congresso di Milano del maggio 1914 in cui vennero approvati tre ordini del giorno che sancirono compiutamente le linee di politica economica e sociale del movimento: “Incompatibilità con l’individualismo economico tanto dell’economia liberale quanto dell’economia socialista basate su una concezione atomistica, cosmopolita e materialistica della società e dello Stato; rifiuto del libero scambio come principio generale e conseguente perseguimento di una politica protezionistica; costituzione dei sindacati industriali come mezzo più efficace per il passaggio dal regime di libera concorrenza a quello di solidarietà nazionale dei produttori e, quindi, dall’individuo alla nazione”. Rocco propose anche la disciplina ed il riconoscimento giuridico delle organizzazioni padronali ed operaie perché “non esorbitassero dal campo delle competizioni economiche danneggiando la nazione”.

In sintesi delineò gli elementi fondamentali della sua dottrina che divenne presto ufficiale per tutti i nazionalisti: “Un duro autoritarismo alla prussiana e una stretta integrazione, sempre alla tedesca, tra apparato statale e cartelli industriali, con la filosofia positivistica dell’organicismo sociale, dove i capi dell’economia si trasfigurano in organi di interesse nazionale, le masse trovano nei sindacati misti, o corporazioni, non l’assurda uguaglianza ma la disciplina delle differenze”. R. De Felice, Cit., p.165.

Ecco che ritroviamo ancora la specificità del rocchismo: “Una simile concezione aveva ben poco di veramente fascista. Per la sua componente più propriamente teorica e personale risentiva indubbiamente di un certo ottimismo giuridico che porta a sopravalutare la funzione e il valore delle leggi. Per quella più propriamente politica, invece, più che del vero fascismo era espressione della parte più moderna e spregiudicata del vecchio regime (il mondo della grande industria, la grossa burocrazia, un certo tipo di intellettuali “pratici”) che accettava la camicia nera ma voleva prendere le proprie precauzioni per non correre il rischio di perdere il potere e nutriva ancora certe diffidenze verso Mussolini e soprattutto gli estremisti del fascismo”. R. De Felice, Cit., p.165.

Sostanzialmente il giurista intravide la possibilità di inquadrare secondo i valori di gerarchia, autorità e socialità la cosiddetta società organica. Nel mezzo interveniva ad operare la Magistratura del lavoro come “giurisdizione di equità”. In particolare Rocco leggeva nelle corporazioni il processo secondo il quale lo Stato rinnovava contro i sindacati, ribelli alla sua autorità, una serrata lotta di supremazia non attraverso un incremento dell’apparato repressivo, bensì attuando una teoria reazionaria basata sulla ricerca ossessiva di uno sforzo di compattezza che non escludeva concessioni economiche alla categorie organizzate garantendosene il controllo e riconoscendole come figure di diritto pubblico. Insomma una trasformazione di questi soggetti “in enti autarchici” o “organi tecnici per l’esercizio di determinate funzioni nel campo del lavoro”.
In questo modo Rocco pensò allo Stato come ad una struttura granitica contemplante un vincolo di solidarietà tra tutte le sue élite: imprese, sindacato, partito, ecc. non lasciando nulla al di fuori del sistema. Più chiaramente egli cercò di aprire la strada allo Stato totalitario inserendo nella sua compagine, cioè entro strutture amministrative, l’intera vita civile della nazione. In un certo senso, questo percorso era simile a quello della Chiesa cattolica della controriforma: democratica nella base di reclutamento quanto assoluta nella struttura di comando, che dal suo tronco centrale vedeva partire una varia ed infinita molteplicità di istituzioni religiose e laiche destinate a garantire un quotidiano, intenso e sistematico collegamento con le masse senza porre in forse la più rigida unità di direttive d’azione.

TUTTO – UOMINI E COSE – NELLO STATO… ANTICOMUNISTA
Rocco pensava proprio a questo quando intendeva effettuare nella compagine statale l’armonizzazione degli interessi degli industriali e dei lavoratori per la realizzazione della pace sociale e della solidarietà nazionale, in vista del rafforzamento della competizione internazionale. Quindi bisognava allargare l’impresa a tutto il territorio dello Stato con la rappresentanza di un sindacato unitario che evitasse concorrenze interne e, riunendo proprio industriali e lavoratori, racchiudesse il compito della produzione e della distribuzione. In pratica, era come applicare una perenne legislazione di guerra che, dietro la disciplinata irreggimentazione dell’esercito del lavoro, puntasse ad una radicale unificazione del corpo sociale. Tutto questo rappresentava il passaggio da un sistema di economia associata ad un sistema di economia organizzata dall’alto. Dunque, il motto mussoliniano “tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato” prese forma proprio con Rocco.
Ciò era evidente soprattutto quando poneva il problema di una nuova definizione del rapporto fra libertà individuale ed autorità dello Stato negando la prima come diritto naturale e ritenendola, invece, una concessione dello Stato fatta nel proprio interesse. Ma lo Stato era tale solo se ristabiliva la sua autorità e sovranità che i governi liberali e il giolittismo “hanno spezzato esponendolo all’assalto di una moltitudine di aggregati privati e sovversivi in lotta tra loro”.
In questa visione il sindacato diventava, così, uno strumento di controllo e subordinazione delle masse nell’interesse collettivo o nazionale. Cominciò a farsi strada il concetto del governo dei più capaci, ovvero di un èlite borghese in grado di elevarsi al di sopra degli interessi contingenti della generazione e di discernere e realizzare i grandi obiettivi storici. Dunque un governo dei migliori in un regime di massa dove tutti però erano organi attivi della vita pubblica. Già nell’opuscolo Che cosa è il nazionalismo e cosa vogliono i nazionalisti, del 1914, erano ampiamente contemplate le linee ideologiche impostate sull’idea di povertà, ristrettezza del suolo italiano e prolificità della razza. Rocco scriveva: “il numero è la vera forza delle razze. Le razze numerose e feconde sono ardite ed espansive, esse avanzano e conquistano. Anche la razza italiana si espande, rompe i freni che la legano al territorio della patria, ed avanza. Questa espansione si chiama oggi emigrazione, ma si tratta di espansione incontrollata, disorganica, non protetta. Invece il problema italiano è un problema di giustizia, occorre uno spazio per l’Italia. Ora reclamiamo anche noi il nostro posto al sole, perché è giusto, perché finalmente abbiamo la forza per reclamarlo. Occorre dunque intensificare con un ulteriore sforzo la produzione interna per realizzare appunto la fase di espansione e di conquista”. In definitiva, per Rocco, una volta stabilite l’autorità e la sovranità dello Stato e costruito l’edificio della solidarietà nazionale, doveva aprirsi la lotta imperialista non attraverso “l’umiliazione dell’emigrazione” ma procedendo ad una vera e propria conquista di territori. “La gara imperiale diventa legge ferrea che a nessuna nazione è dato rinnegare senza soccombere, e che a tutte e a ciascuna impone di misurare, di adattare, di proporzionare la propria vita e tutte le proprie energie e tutti i propri organi alla medesima necessità”.
 
 
 
IL RUOLO DELLE POLITICHE E L’IDEOLOGIA NAZIONALISTA DI GUERRA
Con una simile convinzione la politica estera diventava la politica per eccellenza. La politica interna doveva restaurare l’idea dello Stato come volontà organizzata nella potenza ed assicurare la salda coesione e la disciplina interiore della nazione. La politica militare doveva preparare ed allenarne la forza diretta. La politica economica favorirne, svilupparne e proteggerne la produzione e gli scambi, difenderli sul mercato interno ed aiutarli alla conquista dei mercati esteri, facendone garanzia di indipendenza e strumento di espansione. La politica sociale doveva sostituire alla lotta di classe nella solidarietà internazionale la solidarietà delle classi nella lotta internazionale, di cui lo strumento più perfetto veniva incarnato dal sindacato. La politica culturale doveva rendere consapevole la nazione del proprio genio, della propria tradizione, della necessità di difenderli e farli prevalere nella civiltà mondiale. La politica religiosa doveva costruire l’unità spirituale della nazione per tramutarla in forza di coesione interna e di “esterna espressione”.


Tutto ciò presupponeva un’ideologia di guerra ma il bellicismo nazionalista non era considerato una follia, bensì “previdenza e preparazione a render vittoriose le immancabili guerre future” per il buon esito delle quali spiegò Rocco stesso: “non è necessario intensificare soltanto la preparazione militare, ma bisogna realizzare la consolidazione sociale interna mediante la creazione di una coscienza nazionale. Bisogna aumentare la ricchezza intensificando la produzione, elevare economicamente e moralmente le classi lavoratrici”.
Nulla di generico nel programma nazionalista essenzialmente diverso dal patriottismo e non un indistinto preoccuparsi del benessere della nazione: in questa veste era attaccamento alla patria, alla razza e alla sua affermazione. Nazionalismo progressivo ed espansivo, esclusivo ed esclusivista, non assolutista, antisemita o clericale ma protesta, rivolta, anatema contro tutta “una secolare incrostazione di idee che ha deformato, contorto l’anima italiana. Il nazionalismo si rivolge contro tutti gli ideali del foro e della piazza, contro tutte le idee correnti e dominanti sui cervelli volgari, attacca la democrazia, demolisce l’anticlericalismo, combatte il socialismo, il pacifismo, l’umanitarismo, l’internazionalismo, la massoneria. È rivoluzione e non può convenire agli scettici e ai timidi”.
Rocco chiarì a chi gli obiettava che ormai non restava più nulla da conquistare che “le nazioni forti e progressive non conquistano territori liberi, ma territori occupati dalle nazioni in decadenza”. Si riferiva senza mezzi termini a Francia, Inghilterra, Austria asburgica, “in declino a causa della loro scarsa prolificità alle quali l’Italia oppone la sua potenza demografica”. Espose così i veri obiettivi della politica espansionistica italiana: l’egemonia nel Mediterraneo contro l’imperialismo francese in Africa del Nord ed il controllo dell’Adriatico contro il dominio austriaco nei Balcani.
La lucidità fin troppo semplice di siffatti ragionamenti portò Rocco a superare molto facilmente il dissidio interiore relativo alla pesantissima scelta dell’Italia di intervenire, nella Grande Guerra, a fianco della Triplice Alleanza con Germania e Austria, o dell’intesa con Francia, Inghilterra e Stati Uniti: “Per i nazionalisti una guerra vittoriosa della Triplice significherebbe il rafforzamento degli Asburgo, quindi un ritardo della nostra sistemazione adriatica contro un vicino orientale più potente e più insolente”.
Rocco non temeva di rinnegare nella sostanza la concezione della “nazione proletaria”, ma riteneva opportuno risolvere gradualmente la questione sul fronte adriatico per poi ricostruire un’amicizia italo-tedesca – perché anche la Germania era considerata nazione prolifica, espansiva e proletaria – contro Francia ed Inghilterra. Erano evidenti a chiare lettere le rivendicazioni mediterranee nei confronti della rivale Transalpina da parte del regime fascista: Corsica, Tunisia, Africa Settentrionale. Con il fascismo Rocco pensò di trovare la risposta vincente “nel duello millenario fra lo Stato e gli individui, fra il principio dell’organizzazione contro quello della disgregazione”.
Alcune delle maggiori preoccupazioni dello Stato dovevano essere la cura del benessere fisiologico delle masse e la loro educazione, tutto incentrato sulle esigenze massime della produzione. Congegnata in questo modo la struttura statale, nella sua compattezza ed immutabile unità interna, Rocco concepiva l’uomo come un piccolo meccanismo di un sistema perfettamente organizzato. Per tali ragioni egli fu, quale ministro della Giustizia del regime, l’artefice di tutti gli istituti politici della dittatura anche legittimando machiavellicamente la prassi extralegale e diventando, così, uno dei più formidabili antagonisti della “società aperta” dei nostri tempi.