Nel melmoso terreno dove si
confondono e cooperano legalità e illegalità a vantaggio di spregiudicate
culture economiche e sociali, un gangster si eleva a livello di costruttore e
organizzatore ottenendo nel bene e nel male un posto nella storia
UN MANAGER DEL VIZIO E
DELLA MORTE COCCOLATO DAL SELVAGGIO WEST
In una quotidianità che riconferma la potenza
dell’italico e abietto groviglio Stato-antistato, un letale intreccio rivolto al
più puro affarismo, è bene ricordare che nella patologia di questo reticolo di
avidità umana non c’è sempre e soltanto un risvolto da bassa cronaca nera o
giudiziaria, ma, per certi versi, pagine di storia in cui la genialità del male
si miscela spesso con l’economia e la sociologia. L’esempio tangibile che ha
fatto da battistrada all’ondivago legame tra legalità e illegalità è Salvatore Lucania, più avanti americanizzato
in Charles “Lucky” Luciano, un
emigrante siciliano, come moltissimi agli inizi del ‘900, in cerca di fortuna
nel Nuovo Mondo e futuro padre della moderna criminalità organizzata. Nel 1905,
Luciano ha 8 anni e approda a New York con la famiglia. Si fugge dalla fame ma
le condizioni restano precarie e il destino è già in corso: a 10 anni arriveranno
le prime condanne per furto. Avvisaglie di un lungo percorso in cui il gangster
si trasforma “in una sorta di consulente aziendale della criminalità, cervello
imprenditoriale che presiede a una ristrutturazione dall’alto della mafia
secondo un nuovo modello industriale… Creò una Commissione con compiti di
governo, formata dai capi delle Famiglie di New York…”. J. Dickie, Cosa Nostra – Storia della mafia siciliana,
p.237.
Solo una questione di destino, di ipocrita giustificazionismo dettato da presunta sfortuna, o non anche il prodotto di una certa subcultura americana – quantomeno dell’epoca – basata su un sistema di valori spregiudicato nel valutare la qualità degli uomini e delle loro imprese?: “Si tratta di una cultura la cui anima profonda è da individuare nel cosiddetto ‘spirito della frontiera’ (assimilabile ad un certo selvaggio e sfrenato libertarismo) che tende a dare valore e merito al successo comunque conseguito. Dominante in una siffatta mentalità è l’idea che l’‘eroe’ sia l’individuo capace di giocarsi integralmente la vita per la piena realizzazione della sua propria individualità, non importa se per la legge o contro la legge… Va da sé che il vincente è colui che riesce a piegare le regole ai suoi interessi. Il perdente è chi non ci riesce… È il caso dello sceriffo che riesce a sterminare i criminali della contea; ed anche, simmetricamente, il caso del criminale che riesce a tenere testa a tutti gli sceriffi. Entrambi, a diverso titolo, meritano più ancora che rispetto, ammirazione. Entrambi sono ‘eroi’ perché capaci di mettere integralmente in gioco la vita, mostrando di non barare circa la qualità dei propri mezzi personali. Se poi al criminale tocca infine l’amara sorte del capestro, questo è giusto che accada e quanti stanno dalla parte del bene non possono che averne soddisfazione; ma il criminale continua, nonostante tutto, a meritare esattamente quel tanto di rispetto che corrisponde al grado di intraprendenza e di efficacia delle sue imprese contro la legge e, penzolando da una forca, paga il prezzo del suo sfortunato ma imprescrittibile diritto naturale all’avventura”. G. C. Marino, I Padrini, p.155.
Premessa utile per scorgere nei contorni del nostro personaggio il classico cowboy americano di ottocentesca memoria, tutto fucile e coraggio. E Luciano non mancherà di mostrare queste “qualità” sin dal rapido apprendistato agli ordini del boss Joe Masseria e successivamente nelle immense opportunità offerte, non solo da caratteristiche personali, ma da eventi politici ed economici come l’epopea del Proibizionismo negli anni Venti e Trenta; a suo modo, al di là degli obiettivi di fondo, un altro lungo momento di amalgama tra sfera legale e illegale della società e della cultura: “Il movimento proibizionista… fu una delle più lunghe crociate sociali della storia americana… Prima della Guerra civile (1860-65) i riformatori ritenevano che la schiavitù e l’alcool fossero le due forme di oppressione che minacciavano maggiormente il progresso e la libertà… La crociata del proibizionismo non solo aveva una matrice nativista, ma rientrava anche nei piani di riforma sostenuti da molti progressisti per eliminare la povertà, proteggere la famiglia, promuovere una maggiore efficienza sociale e attaccare il big business”. M. E. Parrish, L’età dell’ansia – Gli Stati Uniti dal 1920 al 1941, pp.116-117.
Nel 1919 il Congresso degli Stati Uniti approva il Diciottesimo emendamento e il Volstead Act che proibiscono la fabbricazione, la vendita e il trasporto di bevande alcoliche in tutta la nazione. Vedremo che, non una figura criminale, ma un sistema d’impresa si imporrà come particolare mediatore tra le più sfrenate e libertarie esigenze sociali tipiche di quello ‘spirito della frontiera’ accennato in premessa; con il risultato paradossale di offrire un palcoscenico di rivalsa ed emancipazione a quelle minoranze italiane, ebraiche e irlandesi in genere discriminate in qualsivoglia attività elevata socialmente: “Il proibizionismo, oltre ad arricchire i produttori clandestini e contrabbandieri di alcolici, aveva tra i suoi principali effetti quello di rendere a suo modo ‘rispettabile’ l’illegalità: si trattava, infatti, di agire su un terreno di rapporti sociali nel quale l’aiutare la gente a sottrarsi al divieto di bere alcolici lo si sarebbe potuto persino interpretare come una forma di laica resistenza a un puritanesimo da vecchie beghine impostosi, e diventato, legge, per l’immediato tornaconto propagandistico di un ceto politico tanto ipocrita quanto sostanzialmente corrotto. Tra l’altro, il proibizionismo era una speciale forma di razzismo, perché, di fatto, colpiva soprattutto i neri e i ceti proletari (discriminati e tenuti sotto controllo con il pretesto delle loro inclinazioni all’alcolismo), mentre non toccava i ricchi che di whisky ed altro ne avevano a disposizione quanto volevano. I contrabbandieri e trafficanti in alcolici, diventarono comunque i ‘laici’ ai quali i ricchi potevano rivolgersi per coltivare in clandestinità i loro piaceri di gola consentendo nel contempo ai loro politici di recitare fino in fondo la loro parte di ‘moralizzatori’ di una società minacciata dalla vituperevoli abitudini dei ceti inferiori”. G. C. Marino, Cit., p.157.
Una società che ancora alla vigilia della Grande Crisi del ’29, il crollo della Borsa, e di conseguenza la Grande Depressione degli anni Trenta, vede davanti a sé un livello di prosperità crescente al motto di “avanti tutta”, spalancando le porte ad una serie di affari legati al proibizionismo in cui, appunto, convivono e collaborano criminali, politica, industria e finanza.
È il caso di Joseph Kennedy, povero emigrato irlandese, padre del futuro Presidente e soprattutto tra i maggiori miliardari americani con interessi all’ombra del contrabbando degli alcolici e amicizie che arrivano fino ad Al Capone.
Un esempio questo non accidentale, ma opportuno nel tracciare le larghe complicità, volute o fortuite, innescate dal quadro politico che dal Presidente Franklin Delano Roosevelt arriva alle famose misure del New Deal contro lo sfacelo economico del periodo: “Limitandoci qui ad estrarre da fatti assai complessi soltanto gli essenziali riferimenti utili per la nostra storia, si può bene intuire, in via generale, che gli incentivi offerti dalla politica rooseveltiana agli sviluppi di una società dei consumi di massa, improntata ad un modello di Stato sociale o welfare state, offrirono oggettivamente, al di là di ogni intenzione, eccezionali opportunità di affarismo legale-illegale alla mafia. Alla quale si aprì, nel quadro degli interessi sollevati dalla ristrutturazione dell’economia capitalistica, anche il campo di inedite esperienze di potere nel mondo del lavoro per il controllo dei sindacati operai e di facili scalate nella politica dei partiti, attraverso i comitati e le associazioni più diverse, di volta in volta costituiti a sostegno della candidature… Favorevoli agli interessi mafiosi risultarono altresì gli orientamenti statualistici e dirigistici della nuova politica che aumentavano il peso degli apparati burocratici, facilmente addomesticabili… con mirate operazioni di corruzione.
È quasi superfluo precisare che la mafia, in linea di massima, divenne quasi subito rooseveltiana. Attraverso gli stessi meccanismi avviati dalle grandi riforme, si posero le basi di un’alleanza tra mafiosi e parti consistenti del partito democratico che avrebbero avuto una sotterranea, anche se travagliata, continuità fino agli anni Sessanta, ai tempi del presidente J. F. Kennedy…”. G. C. Marino, Storia della mafia, pp.134-135.
L’ARCHITETTO DEL DIAVOLO
In un contesto così melmoso, capace di inghiottire in un sol boccone alimenti buoni e avariati, Lucky Luciano si eleverà dalla folta schiera di malavitosi come “un boys tra i più svegli, proveniente da Lercara Friddi, un paese della provincia di Palermo… capace di inediti sincretismi siculo-americani e delle invenzioni più spericolate e originali”. G. C. Marino, Cit., p.107.
Un’opera
di costruzione teorica e pratica che, considerate le caratteristiche e gli
strumenti molto particolari della “professione” di Luciano, non può avvenire
senza un violento spargimento di sangue per consentire l’ascesa al potere sua e
di una nuova generazione di gangster affamati da più moderne idee gestionali
rispetto ai vecchi capi della Mano Nera.
L’occasione gli si presenta, ma in qualche modo se la procura in un gioco di
alleanze sotterranee e tradimenti, al tempo della cosiddetta guerra castellammarese (1930-31) tra i
boss Joe Masseria e Salvatore Maranzano:
i morti si contano su entrambi i fronti e lo stallo si conclude proprio quando
Luciano, d’accordo segretamente col secondo, ordina l’assassinio dello stesso
Masseria ad aprile del ’31 in uno scenario da ultima cena e pochi mesi dopo
anche del Maranzano illusosi ormai di essere il “capo dei capi”. Luciano non ha
più rivali e può dar corso al cambiamento e all’ordine di cui è convinto siano
maturi i tempi per lanciarsi in un “gioco” molto più grande e politico,
oltreché criminal-affaristico. Infatti, nel 1933 il proibizionismo verrà
abrogato con effetti sui quali ancora si discute: “Nel breve periodo, a
guadagnarci dal proibizionismo furono le linee di navigazione, le fabbriche di
armi, i rivenditori di automobili, in gruppi etnici che acquisirono mobilità
sociale, e le pompe funebri. Dovettero invece chiudere per un decennio i saloons dei quartieri operai, che
vennero sostituiti da eleganti speakeasies
(letteralmente gli esercizi commerciali del ‘parlar piano’ ordinando una
bevanda illegale) che si rivolgevano soprattutto ad una clientela di classe
media o delle classi superiori. Gli alcolici a disposizione della classi
inferiori, che non erano di buona qualità, peggiorarono ancora, tranne che
nelle zone di campagna dove si continuò a bere il whisky ad alta gradazione, il
cosiddetto ‘lampo bianco’. In definitiva, per il proibizionismo come per molte
altre misure repubblicane degli anni Venti, il peso maggiore lo dovettero
sopportare le classi economicamente più deboli e le minoranze etniche… Vi sono,
tuttavia, studiosi che sostengono che il Diciottesimo emendamento e il Volstead
Act mutarono in meglio le abitudini del Paese in materia di alcoolici, perché
terminato il proibizionismo, gli Stati Uniti divennero una nazione più sobria…
È più probabile che… gli americani si siano messi a bere meno superalcolici per
ragioni che non hanno nulla a che vedere col Volstead Act, quali, ad esempio un
mutare dei comportamenti legati allo status sociale, un miglioramento delle
conoscenze mediche, nuove abitudini alimentari e, dopo la Seconda guerra
mondiale, un più alto tenore di vita”. M. E. Parrish, Cit., pp.130-131.
Per una
fase che si chiude, un’altra ben più vasta si apre tra stupefacenti, settore
trasporti, controllo dei porti, mercato del lavoro e molto altro. A questo
nuovo banchetto Luciano tiene posto per tutti, italiani in testa, ma anche
ebrei, irlandesi e quanti accettino di essere accomunati da un sistema ferreo
di regole: “…Luciano fu dunque una forza esterna arruolata per spostare gli
equilibri in una lotta per il potere contro i relativamente angusti confini
dell’onorata società. I contatti di Lucky con l’assai più vasto universo della
criminalità organizzata ebraica e irlandese furono la risorsa fondamentale che
egli fece pesare all’interno della mafia. È tuttavia lecito ritenere che la
morte di Maranzano segni il momento in cui la mafia operante negli Stati Uniti
diventò un’organizzazione italo-americana piuttosto che siciliana… Va comunque
precisato che l’americanizzazione della mafia non fu una trasformazione
spettacolare, una rottura consumata una volta per tutte con le usanze
tradizionali del Vecchio Mondo. Con l’assorbimento di elementi napoletani e di
altre regioni del Mezzogiorno italiano, la composizione etnica della mafia
diventò lievemente più variegata”. J. Dickie, Cit., p.239.
Solo una questione di destino, di ipocrita giustificazionismo dettato da presunta sfortuna, o non anche il prodotto di una certa subcultura americana – quantomeno dell’epoca – basata su un sistema di valori spregiudicato nel valutare la qualità degli uomini e delle loro imprese?: “Si tratta di una cultura la cui anima profonda è da individuare nel cosiddetto ‘spirito della frontiera’ (assimilabile ad un certo selvaggio e sfrenato libertarismo) che tende a dare valore e merito al successo comunque conseguito. Dominante in una siffatta mentalità è l’idea che l’‘eroe’ sia l’individuo capace di giocarsi integralmente la vita per la piena realizzazione della sua propria individualità, non importa se per la legge o contro la legge… Va da sé che il vincente è colui che riesce a piegare le regole ai suoi interessi. Il perdente è chi non ci riesce… È il caso dello sceriffo che riesce a sterminare i criminali della contea; ed anche, simmetricamente, il caso del criminale che riesce a tenere testa a tutti gli sceriffi. Entrambi, a diverso titolo, meritano più ancora che rispetto, ammirazione. Entrambi sono ‘eroi’ perché capaci di mettere integralmente in gioco la vita, mostrando di non barare circa la qualità dei propri mezzi personali. Se poi al criminale tocca infine l’amara sorte del capestro, questo è giusto che accada e quanti stanno dalla parte del bene non possono che averne soddisfazione; ma il criminale continua, nonostante tutto, a meritare esattamente quel tanto di rispetto che corrisponde al grado di intraprendenza e di efficacia delle sue imprese contro la legge e, penzolando da una forca, paga il prezzo del suo sfortunato ma imprescrittibile diritto naturale all’avventura”. G. C. Marino, I Padrini, p.155.
Premessa utile per scorgere nei contorni del nostro personaggio il classico cowboy americano di ottocentesca memoria, tutto fucile e coraggio. E Luciano non mancherà di mostrare queste “qualità” sin dal rapido apprendistato agli ordini del boss Joe Masseria e successivamente nelle immense opportunità offerte, non solo da caratteristiche personali, ma da eventi politici ed economici come l’epopea del Proibizionismo negli anni Venti e Trenta; a suo modo, al di là degli obiettivi di fondo, un altro lungo momento di amalgama tra sfera legale e illegale della società e della cultura: “Il movimento proibizionista… fu una delle più lunghe crociate sociali della storia americana… Prima della Guerra civile (1860-65) i riformatori ritenevano che la schiavitù e l’alcool fossero le due forme di oppressione che minacciavano maggiormente il progresso e la libertà… La crociata del proibizionismo non solo aveva una matrice nativista, ma rientrava anche nei piani di riforma sostenuti da molti progressisti per eliminare la povertà, proteggere la famiglia, promuovere una maggiore efficienza sociale e attaccare il big business”. M. E. Parrish, L’età dell’ansia – Gli Stati Uniti dal 1920 al 1941, pp.116-117.
Nel 1919 il Congresso degli Stati Uniti approva il Diciottesimo emendamento e il Volstead Act che proibiscono la fabbricazione, la vendita e il trasporto di bevande alcoliche in tutta la nazione. Vedremo che, non una figura criminale, ma un sistema d’impresa si imporrà come particolare mediatore tra le più sfrenate e libertarie esigenze sociali tipiche di quello ‘spirito della frontiera’ accennato in premessa; con il risultato paradossale di offrire un palcoscenico di rivalsa ed emancipazione a quelle minoranze italiane, ebraiche e irlandesi in genere discriminate in qualsivoglia attività elevata socialmente: “Il proibizionismo, oltre ad arricchire i produttori clandestini e contrabbandieri di alcolici, aveva tra i suoi principali effetti quello di rendere a suo modo ‘rispettabile’ l’illegalità: si trattava, infatti, di agire su un terreno di rapporti sociali nel quale l’aiutare la gente a sottrarsi al divieto di bere alcolici lo si sarebbe potuto persino interpretare come una forma di laica resistenza a un puritanesimo da vecchie beghine impostosi, e diventato, legge, per l’immediato tornaconto propagandistico di un ceto politico tanto ipocrita quanto sostanzialmente corrotto. Tra l’altro, il proibizionismo era una speciale forma di razzismo, perché, di fatto, colpiva soprattutto i neri e i ceti proletari (discriminati e tenuti sotto controllo con il pretesto delle loro inclinazioni all’alcolismo), mentre non toccava i ricchi che di whisky ed altro ne avevano a disposizione quanto volevano. I contrabbandieri e trafficanti in alcolici, diventarono comunque i ‘laici’ ai quali i ricchi potevano rivolgersi per coltivare in clandestinità i loro piaceri di gola consentendo nel contempo ai loro politici di recitare fino in fondo la loro parte di ‘moralizzatori’ di una società minacciata dalla vituperevoli abitudini dei ceti inferiori”. G. C. Marino, Cit., p.157.
Una società che ancora alla vigilia della Grande Crisi del ’29, il crollo della Borsa, e di conseguenza la Grande Depressione degli anni Trenta, vede davanti a sé un livello di prosperità crescente al motto di “avanti tutta”, spalancando le porte ad una serie di affari legati al proibizionismo in cui, appunto, convivono e collaborano criminali, politica, industria e finanza.
È il caso di Joseph Kennedy, povero emigrato irlandese, padre del futuro Presidente e soprattutto tra i maggiori miliardari americani con interessi all’ombra del contrabbando degli alcolici e amicizie che arrivano fino ad Al Capone.
Un esempio questo non accidentale, ma opportuno nel tracciare le larghe complicità, volute o fortuite, innescate dal quadro politico che dal Presidente Franklin Delano Roosevelt arriva alle famose misure del New Deal contro lo sfacelo economico del periodo: “Limitandoci qui ad estrarre da fatti assai complessi soltanto gli essenziali riferimenti utili per la nostra storia, si può bene intuire, in via generale, che gli incentivi offerti dalla politica rooseveltiana agli sviluppi di una società dei consumi di massa, improntata ad un modello di Stato sociale o welfare state, offrirono oggettivamente, al di là di ogni intenzione, eccezionali opportunità di affarismo legale-illegale alla mafia. Alla quale si aprì, nel quadro degli interessi sollevati dalla ristrutturazione dell’economia capitalistica, anche il campo di inedite esperienze di potere nel mondo del lavoro per il controllo dei sindacati operai e di facili scalate nella politica dei partiti, attraverso i comitati e le associazioni più diverse, di volta in volta costituiti a sostegno della candidature… Favorevoli agli interessi mafiosi risultarono altresì gli orientamenti statualistici e dirigistici della nuova politica che aumentavano il peso degli apparati burocratici, facilmente addomesticabili… con mirate operazioni di corruzione.
È quasi superfluo precisare che la mafia, in linea di massima, divenne quasi subito rooseveltiana. Attraverso gli stessi meccanismi avviati dalle grandi riforme, si posero le basi di un’alleanza tra mafiosi e parti consistenti del partito democratico che avrebbero avuto una sotterranea, anche se travagliata, continuità fino agli anni Sessanta, ai tempi del presidente J. F. Kennedy…”. G. C. Marino, Storia della mafia, pp.134-135.
L’ARCHITETTO DEL DIAVOLO
In un contesto così melmoso, capace di inghiottire in un sol boccone alimenti buoni e avariati, Lucky Luciano si eleverà dalla folta schiera di malavitosi come “un boys tra i più svegli, proveniente da Lercara Friddi, un paese della provincia di Palermo… capace di inediti sincretismi siculo-americani e delle invenzioni più spericolate e originali”. G. C. Marino, Cit., p.107.
A lui sono ascrivibili tre fasi operative che
lo portano ad investire un ruolo di massimo livello “affermandosi
nell’immaginario della delinquenza, e persistendo nella memoria storica
dell’intera società americana, come l’‘eccellente’, l’‘inarrivabile’,
l’incontestato supremo modello. In lui si compì una radicale conversione del
gangster (di cui Al Capone era stato l’immaginifico esemplare) in eroe
dell’illegalità. A tal punto da riuscire a trovare un posto di rilievo
nell’elenco di ‘costruttori e titani’ del XX secolo compilato dal settimanale Time alle soglie del nuovo millennio”. G.
C. Marino, I Padrini, p.154.
- L’organizzazione di Cosa Nostra americana in un Sindacato nazionale del crimine a capo
di ogni attività illegale nel Paese, navigando in mare aperto a contatto con il
potere politico;
- la presunta
collaborazione con il Governo degli Stati Uniti per agevolare lo sbarco
in Sicilia delle truppe alleate nella II Guerra mondiale (luglio 1943);
- l’organizzazione internazionale di Cosa Nostra sull’asse Sicilia-Stati
Uniti, necessaria da quando con la fine del proibizionismo e della guerra si
profila il nuovo e immenso business del mercato degli stupefacenti.
Viene
istituita la Commissione o cupola di Cosa Nostra, costituita dalle
Cinque Famiglie di New York dei Bonanno, Colombo, Gambino, Genovese, Lucchese,
dalla Chicago Outfit di Al Capone e dalla Famiglia di Buffalo dei Magaddino in
rappresentanza delle bande minori. Non una semplice congrega di criminali ma un
quasi democratico Consiglio di amministrazione per dirimere i vari interessi
che ruotano attorno ad alcool, prostituzione, stupefacenti, gioco d’azzardo,
sindacati, politica e tutto ciò che crea dollari e potere: “Nacque in questo
modo, sicilianissima nel nome, e americanissima nella struttura e nei fini,
Cosa nostra, una vera e propria holding dell’affarismo mafioso, avviata a
diventare presto, una multinazionale criminale, con capitali enormi in continuo
accrescimento, garantiti e alimentati da un’imponente aggregazione di affari
tanto diversi quanto sempre amalgamabili, del tutto sporchi o ripuliti,
talvolta persino ostentatamente legali, all’insegna dei servizi e dei ‘favori’
da rendere agli alleati della politica e dell’economia, agli ‘amici’ e agli
‘amici degli amici’”. G. C. Marino, Storia
della mafia, p.136.
Luciano e i suoi “compari”, con le loro estreme potenzialità di
investimento e protezione dei più loschi interessi, vogliono farsi trovare
pronti a raccogliere le opportunità offerte dall’America della Grande
Depressione e dalle risorse messe in campo dai programmi rooseveltiani per
combattere la crisi.
IL DIABOLICO
PATRIOTA
Per questa struttura innovativa, che poggia
su solide colonne di tradizione e modernità per la creazione di un impero del
crimine, Luciano sarà – cogliendo gli opportuni insegnamenti della storia – un Cesare senza corona, un punto di sintesi
della filosofia, delle strategie e dell’autorità per il bene della collettività
mafiosa: “Il Luciano voleva… che la mafia fosse in grado di assicurarsi nella
società americana un suo posto stabile, possibilmente accettato come regolare e
regolatore, un ruolo il meno possibile conflittuale con le istituzioni
pubbliche, riservato e coperto, a latere della legalità e, pertanto, un ruolo a
suo modo ‘sociale’, che risultasse almeno ufficioso dato che, com’era da
ritenersi ovvio, non avrebbe mai potuto essere ufficializzato”. G. C. Marino, I Padrini, p.164.
Il quadro sembra perfetto, ma la pretesa di
una sorta di “legalizzazione” della criminalità organizzata – per quanto
paradossalmente in linea con la facciata tipica di un Far West farcito di sfrenato liberismo economico e libertarismo
sociale – è oltremodo inimmaginabile. Lucky Luciano regna dalla sua suite del
Waldorf-Astoria Hotel in un apparente stato di sicurezza dovuto anche ad un
vastissimo livello di corruzione tale da garantirgli amicizie molto influenti.
Eppure lo Stato legale non lo dimentica e lo tallona tanto da fargli rischiare
la perdita di tutto. Nel 1936, il Procuratore speciale di New York, Thomas E. Dewey, riesce a raccogliere
le uniche prove concrete a suo carico, nel ramo della prostituzione, facendolo
condannare a trent’anni di carcere. Una prospettiva non certo allettante per i
suoi progetti smisurati cui servono libertà di movimento, nonostante anche dal
carcere riesca a dirigere quanto possibile. Ma ecco le circostanze della storia
e l’intreccio limaccioso tra legalità e illegalità bussare alla sua porta,
scrivendo il capitolo più incerto dal punto di vista delle evidenze storiche ma
chiaramente gravido di risvolti più che positivi per la vita di Luciano e della
mafia in America e in Italia: la guerra infuria in Europa dal 1939, gli Stati
Uniti vengono coinvolti nel ’41 e tra le prime misure di emergenza interna
spicca la necessità di protezione portuale da azioni di sabotaggio in corso ad
opera di sommergibili tedeschi a poche miglia da New York. Inoltre bisogna
porgere orecchie attente e discrete ad eventuali infiltrazioni nazifasciste
all’interno delle comunità italo-tedesche.
Ecco tornare molto utili Luciano e
le sue diffuse amicizie con capacità di controllo sul territorio. Il Naval Intelligence ne ottiene la
collaborazione attraverso il concorso di Joseph
Lanza, boss palermitano dei portuali di Manhattan, e soprattutto del
braccio destro di Luciano, l’ebreo Meyer
Lansky di provata fede antinazista a garanzia dei livelli politici e militari
invischiati in questa vicenda che frutta a Lucky Luciano il trasferimento in
penitenziari più confortevoli. Ma il contributo della mafia alla sforzo bellico
non si ferma qui e va ben oltre il controllo sulla sicurezza dei porti, le
truppe anglo-americane si stanno preparando allo sbarco in Sicilia nel luglio 1943
(Operazione Husky); quella Sicilia così familiare al Luciano e che potrebbe
agevolare in qualche modo le operazioni navali. È ancora Meyer Lansky con altri
soci a tessere i rapporti d’alto livello, mentre dall’altra sponda dell’oceano,
Luciano affida al suo vecchio sodale Vito Genovese, da tempo rientrato in
Italia dagli Stati Uniti, il compito di mettere in contatto i giusti amici con
i servizi americani per preparare il terreno.
Sta di fatto che, con buona pace degli
storici mafiologi e della legenda di un Lucky Luciano immaginato nel ’43 su un
aereo militare nei cieli di Villalba a Caltanissetta con la L sulla bandiera come segnale ai paisà, una serie di coincidenze
alimentano l’attendibilità del patto segreto:
In primo luogo, la concessione della
libertà sulla parola a Luciano, nel 1946, e il rimpatrio definitivo in Italia.
Perché mai questa scarcerazione dopo soli 10 anni di reclusione quando ne
avrebbe dovuti scontare 30-50? Libertà ricevuta dallo stesso Thomas E. Dewey, suo
accusatore e ora Governatore dello Stato di New York.
Senza dimenticare che dopo lo sbarco
ritroviamo nel ruolo di aiutante e interprete il ben noto gangster Vito
Genovese, in futuro boss dell’omonima Famiglia, al seguito del Colonnello
americano Charles Poletti, capo
dell’Ufficio affari civili dell’Amgot (Amministrazione militare alleata dei
territori occupati).
Innegabile, inoltre, l’idea serpeggiata – ma
non concretizzata – del conferimento a Luciano della “Medaglia d’onore” del
Congresso degli Stati Uniti. Per quali meriti eccezionali?
Per finire, altrettanto
innegabile, dobbiamo considerare la guerra e i nuovi scenari geopolitici con
l’avanzata del comunismo una manna dal cielo per i mafiosi siciliani,
restituiti dopo la morsa del fascismo al loro potere sull’isola tanto da
attizzare il fuoco del separatismo con la non tanto segreta ambizione di
aggiungersi come Stato e stelletta alla bandiera americana. E non pochi di
questi personaggi, ergendosi dalla già citata melma Stato-mafia arrivano a
prendere direttamente la guida di diverse amministrazioni comunali, come nel
caso più celebre del capomafia Calogero
Vizzini: “È fin troppo facile intuire il senso e i fini del delicato
incarico affidato al Luciano: egli avrebbe dovuto – il che sicuramente fece da
par suo, con tutta la rapidità consentitagli dai collegamenti esistenti tra osa
Nostra e l’Onorata società – addirittura organizzare un fronte interno filoalleato
in Sicilia, sfruttando tutte le risorse delle egemonia sociale della mafia e i
suoi rapporti organici con la massoneria. In altri termini, si trattava sia di
preparare il terreno per un’amichevole ospitalità della popolazione alle truppe
alleate, sia di predisporre le condizioni favorevoli, le alleanze e lo stesso
personale locale da utilizzare per un pacifico ed efficace governo dell’isola da
parte della futura Amministrazione militare. In tale prospettiva… la mafia
veniva, in pratica, legittimata come futura classe dirigente dell’isola, con
potenziali compiti di presidio sull’Italia intera”. G. C. Marino, Storia
della mafia, pp.146-147.
Quindi uno spregiudicato sguardo al futuro postbellico
da parte degli americani, perché è evidente che in quel momento gli Alleati,
guidati da generali del calibro di George
Patton, possono fare a meno della mafia per le operazioni militari, ma ben
vengano lo stesso i benefici derivanti da aiuti tesi a facilitare il più
possibile l’avanzata sul territorio siciliano risparmiando soprattutto vite
umane. E così sarà, giacché è manifesto che queste stesse condizioni non si
sarebbero verificate nel sanguinosissimo sbarco in Normandia del 1944.
Purtroppo per la realpolitik, l’influenza di Luciano non arriva fino al Canale
della Manica!!
L’ULTIMA
“IMPRESA”
La guerra è vinta e Luciano è libero, non
ad oziare e godersi la ricca pensione ma in affari tra Napoli e Palermo
pianificando il futuro ancora una volta; e futuro significa l’internazionalizzazione
sistemica del traffico di eroina, che al momento invece conduce più
limitatamente col socio Vizzini attraverso fabbriche di confetti e dolciumi a
Palermo. Da tempo si intuisce il potenziale immenso di quel mercato per il
quale servono basi di produzione, raffinazione e trasporto; quindi ecco di
nuovo il manager e organizzatore alle prese con un progetto ancora più
articolato di quello che aveva portato alla strutturazione di Cosa Nostra
americana anni prima. Ora si tratta di mettere insieme una rete tra Onorata
Società siciliana, diramazioni della camorra napoletana e le Famiglie americane
per coordinare l’impresa sui mercati europei e d’oltreoceano. Il coinvolgimento
determinante della Sicilia, in particolare, non dipende solo da fattori etnici
ma per l’efficienza, la competenza, il know-how
dei paesani: “il controllo del territorio da parte di Cosa Nostra era molto più
completo che negli Stati Uniti… Ma le attrattive dell’Italia non si esaurivano
nel suo simpaticamente ‘indecente’ apparato di governo; c’era anche il fatto
che il livello del consumo di droga vi era trascurabile, e quindi nessuno
poteva essere indotto a occuparsi del problema nell’aspettativa di benefici
politici. Inoltre, siccome gli uomini d’onore siciliani si muovevano in lungo e
in largo nel Mediterraneo per il contrabbando di sigarette, per loro non
sarebbe stato un problema ritirare l’eroina raffinata nel Sud della Francia
mentre erano già lì per altri motivi”. J. Dickie, Cit., pp.310-311.
Mettendo in moto i suoi contatti per
abbozzare la piattaforma del progetto, come per la preparazione di un normale
piano industriale con l’aiuto del solito Meyer Lansky, Luciano riunisce i più
alti livelli mafiosi al Grand Hotel et Des
Palmes di Palermo nell’ottobre del 1957 in cui si decide la fusione tra
Onorata società e Cosa Nostra in una sorta di multinazionale del traffico di
stupefacenti. Anche questo momento, come nel 1931, coincide con la necessità di
un ricambio generazionale adeguato ai tempi nuovi che, soprattutto sul fronte
siciliano, i vecchi padrini della mafia rurale stentano a comprendere. Così,
mentre si affacciano sulla scena personaggi che assumeranno ruoli di vertice come
Tano Badalamenti, altri, come ovvio,
indisponibili a limitare la loro influenza saranno messi da parte – o meglio
falciati – non con dimissioni o prepensionamenti ma con sventagliate di mitra:
il caso più illustre riguarda il calabrese e capo della Famiglia Gambino, Albert Anastasia.
Nonostante sembri aver vissuto dieci vite,
a quel tempo Luciano ha 60 anni e la modernizzazione mafiosa portata a
compimento dovrebbe aprirgli spazi ancora enormi di potere e dominio ma, come
in una nemesi storica che
sopraggiunge ad equilibrare torti e responsabilità individuali, non godrà a
lungo della sua ultima impresa. Questa volta è il suo cuore, in cui forse non
hanno albergato mai dei veri sentimenti, a condannarlo a morte con un infarto a
Napoli nel 1962: “Così – schiacciato, potrebbe dirsi, dall’enorme peso dei suoi
crimini (gli si attribuiscono circa 500 non documentabili omicidi) – compì il
suo dovere naturale di morire. Lo fece in modo piuttosto francescano, per
terra, con il capo riposto su un cuscino di fortuna, in mezzo a gente anonima e
curiosa, su bigi mattoni sporchi di fango. Però il giorno dopo ebbe gli onori
di uno dei più grandi funerali a memoria di Napoli. E i suoi sudditi, gli
‘amici’, vollero che ritornasse in America, nella sua vera, piccola patria di
Brooklyn, dove tuttora è sepolto”. G. C. Marino, I Padrini, p.192.
...La sua
opera, invece, è ancora viva e vegeta così come la melma dentro la quale si
sostengono bene e male.
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