14 dicembre 2011

FRANCESCO FERRUCCI, L’UOMO MORTO UCCISO DA UN “MARAMALDO”

Vita e morte di un condottiero contro la tirannide in un’Italia che dice addio al Rinascimento e torna preda degli appetiti di tutti. Papi ed eserciti stranieri riempiono i cimiteri soffocando la libertà nella sanguinosa resistenza della Repubblica fiorentina
 
…SUL FINIRE DEL RINASCIMENTO
Con la fine della vitalità e dello spirito rinascimentale l’Italia è nuovamente terreno e preda di battaglia dei grandi imperi (Francia, Spagna, Sacro Romano Impero) e del Papato, in uno stravolgimento continuo di alleanze. Tra delicati scenari politici, progetti di accentramento del potere e dispotismo, la piccola Repubblica di Firenze cerca di opporsi al ritorno dei Medici cacciati dal dominio sulla città sin dal 1494. L’eroe di questa resistenza è Francesco Ferrucci, valoroso soldato e condottiero italiano nell’era dei capitani di ventura. La tragica pagina di storia di un eroe patriottico contro la tirannide. Siglata la pace tra Papa Clemente VII e Carlo V, che porta il primo a riaffermare l’influenza del Papato e il secondo a cingere la corona Imperatore sacro e romano, la Repubblica di Firenze – nata dalla cacciata a più riprese dei Medici e ispirata da Girolamo Savonarola – si ritrova da sola a difendere la sua indipendenza dalle mire del Pontefice che intende ripristinare la supremazia della sua famiglia ricorrendo all’aiuto dell’esercito imperiale.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FIRENZE MANGIA TOPI E I CIMITERI PIENI DELLA CUPIDIGIA DEI PAPI
Le spese della pace le paga quindi Firenze che “appassionatamente attaccata alla sua Repubblica, non volle arrendersi al diktat imperiale. Per recuperarla alla sua famiglia, Clemente versò settantamila ducati al principe Filiberto d’Orange che la conquistasse con le sue truppe… Assediata, Firenze distrusse tutti i suoi stupendi giardini per impedire che gli assalitori vi trovassero riparo… Oro, argenteria, gioielli, furono spontaneamente offerti da chiese e famiglie private e fusi per farne moneta con cui procurarsi armi e munizioni. Michelangelo abbandonò le sue sculture nella cappella medicea per costruire forti e bastioni… La carestia ridusse i fiorentini a nutrirsi di ghiande e di topi… La repressione riempì i cimiteri e le galere… A questo risultato aveva condotto la politica dei Papi e la loro cupidigia di potere temporale. A saldare il conto dei loro errori era l’Italia, ridotta a colonia della Spagna”. I. Montanelli, Storia d’Italia, 1250-1600, pp.460-461.
 
2.000 CONTRO 20.000
Eroe fiorentino tra i più memorabili della sua epoca (1489-1530), Francesco Ferrucci nasce a Firenze da una nobile famiglia. I primi anni della sua gioventù li trascorre occupandosi di commercio ma ben presto mostra la sua personalità e la sua propensione all’uso delle armi, rivelando eccezionali qualità di comandante. Con Firenze minacciata dalle milizie di Carlo V, il Ferrucci viene nominato commissario con pieni poteri su Empoli e da lì organizza la difesa della città e il vettovagliamento. Le sue doti d’uomo d’armi non tardano a svelarsi e permettono di conseguir vittorie a Val Di Pesa, Val D’Elsa, Val D’Era e Volterra. Ma le forze imperiali sono dieci volte superiori alle sue bande e tutte premono su Firenze. Egli concepisce il piano temerario di prendere il nemico alle spalle partendo da Pisa.
 
Un anonimo poeta così tramanda il suo proclama ai soldati: “Io per esperienza, soldati fortissimi, so che le parole non aggiungono gagliardia nei cuori generosi, ma sì bene che quella virtù, che è dentro rinchiusa, allora si dimostra più viva se l’occasione o la necessità la costringe a far prova di sé. L’occasione vedete è bellissima, e sopra ogni altra è onoratissima che ci dimostra, difendendo a giusto petto l’onore delle armi italiane per la libertà della nobilissima patria nostra, per farci splendere per tutti i secoli di chiara luce. La necessità ci è presente, davanti agli occhi che ci fa certi, che, ritirandoci, saremo raggiunti dalla cavalleria nemica, e che stando fermi non avremo luogo forte da poter difenderci né vettovaglie da poter vincere, quanto bene prima entriamo in quelle mura… Né benché siamo meno di numero, ci dobbiamo diffidare, per l’esperienza, oltre a quella della virtù nostra, e maggiormente confidare in Dio Ottimo Massimo, che giustissimo e conoscitore del nostro buon fine, supplirà con la potenza, dove mancasse la forza nostra”.
…Ma sono pur sempre 2.000 contro 20.000!!! L’impeto degli assalti e il valore dei suoi uomini cedono di fronte alla stragrande maggioranza dei nemici.
 
“TU UCCIDI UN UOMO MORTO” E L’INNO D’ITALIA
Ferrucci esce da Pisa il 31 luglio 1530 e per le montagne del lucchese e del piemontese scende a San Marcello. A Gavinana, il 3 agosto, i suoi soldati si scontrano con quelle d’Orange e di Fabrizio Maramaldo, capitano di ventura al comando di una delle colonne imperiali. La lotta è aspra, Filiberto d’Orange viene ucciso con due colpi d’archibugio, ma anche Ferrucci cade gravemente ferito e prigioniero; portato poi agonizzante vicino a Maramaldo che finisce di ucciderlo sfogando tutto il suo livore dopo che i soldati avversari non hanno osato alzare le mani sul comandante ferito. “Tu uccidi un uomo morto” esclama con disprezzo Ferrucci prima di spirare.
Con lui muore anche la Repubblica fiorentina ma resta vivo in una strofa dell’inno d’Italia: Dall'Alpi a Sicilia dovunque è Legnano, ogn’uom di Ferruccio
ha il core, ha la mano, i bimbi d'Italia si chiaman Balilla, il suon d'ogni squilla i Vespri suonò. Stringiamci a coorte siam pronti alla morte l’Italia chiamò”.
“Forse il coraggio e la tenacia di Firenze sarebbero stati premiati se il generale a cui essa aveva affidato il comando delle proprie milizie, Malatesta Baglioni, non avesse tradito. Egli volse le sue artiglierie contro la stremata città che da quel momento fu alla mercé del nemico”. I. Montanelli, Storia d’Italia, 1250-1600, p.460.
 
Alessandro de’ Medici fu il nuovo duca di Firenze, per nulla Magnifico come l’illustre parente. “Ne andò di mezzo perfino la bella squillante campana di Palazzo Vecchio… La fece fondere perché – come scrisse un cronista – la gente non sentisse più il dolce suono della libertà”. I. Montanelli, Cit., p.461.
 
 
 
 



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