9 novembre 2011

CESARE, ACQUA GELIDA NELL'ANIMA PER LA GLORIA O LA MORTE

Dal passaggio di un fiume al dominio su Roma. Sogno di potere e rinnovamento contro le oligarchie di una Repubblica decrepita. Lucida visione sugli assetti dell’impero nascente mettendo in gioco tutto, abbandonando la vita e diventando esso stesso il nome eterno dell’autorità

LA LEGGE DEL PIÙ FORTE PER IL POTERE
Più che da un generale e fin troppo noto accenno biografico di un immenso personaggio storico, iniziamo questa galleria di singolari vicende umane con un atto dirompente: Caio Giulio Cesare sul Rubicone. Un evento universale, perfetto e irripetibile per descrivere la vita degli uomini di ogni tempo nelle fasi decisive del destino: quelle delle scelte irrevocabili. Per Cesare ciò significa sicura prospettiva di gloria o di morte. In pochi anni avrà sia la prima che la seconda, facendo germogliare nel frattempo le radici secolari della Roma dei Cesari.
 
 
“Il dado è tratto” – frase attribuita da Svetonio a Giulio Cesare che, il 10 gennaio 49 a.C., varcando il fiume Rubicone alla testa del suo esercito residuo dalla Gallia dà il via alla guerra civile contro Pompeo, alla fine della Repubblica e alla costruzione dell’Impero. Il Rubicone: in epoca romana segna il confine tra l’Italia, considerata parte integrale del territorio di Roma, e la provincia della Gallia Cisalpina. Per legge è vietato ai generali passarlo in armi.
 
Cosa spinge Cesare ad infrangere la legge? Hanno ragione i suoi avversari nel volerlo processare e dichiarare nemico pubblico per aver condotto una guerra di conquista illegale in Gallia e non voler cedere il comando? Strano concetto per una Roma già imperialista che afferra con i suoi artigli molti popoli e nazioni. Pretesti, solo pretesti per cavillare su ciò che in realtà è un definitivo scontro di potere tra il condottiero populares e la classe dominante senatoria e nobiliare spalleggiata dall’alleato-rivale Pompeo. Nessuno dei due è disposto a cedere. La differenza è che il primo è padrone di se stesso e della sua forza per quanto esigua in quel momento, il secondo in bilico tra Cesare stesso e il Senato che lo istiga. Potrebbero accordarsi contro tutti forti del comando delle legioni sull’esempio del dittatore Silla, ma la verità è che Roma si avvia ad essere il centro del potere del mondo conosciuto in mano ad un solo uomo per volta. Non c’è più spazio per la coabitazione. Quindi sulle gracili gambe di una Repubblica del privilegio di casta che volge suo malgrado alla fine, il conquistatore delle Gallie – per quanto esitante – sa in cuor suo che non ha più scelta; o per lui e la sua visione è la fine. Come scrive Lucano nella sua Pharsalia: “Come si giunse alle strette rive del Rubicone, apparve al condottiero la grande immagine della patria trepidante, chiara nell’oscura notte e mestissima in volto, con i capelli bianchi fluenti dal capo turrito; si ergeva con la chioma lacera e le nude braccia, e parlava tra i singhiozzi: ‘Dove vi spingete ancora, dove portate le mie insegne o guerrieri? Se venite nella legalità, da cittadini, v’è lecito fin qui’. Allora un brivido scosse le membra del condottiero, gli si drizzarono i capelli e un torpore, frenandone il passo, lo trattenne sul limitare della riva”.
 
Ne immaginiamo il tormento dell’anima, e forse anche quella del suo cavallo Dita, raggelarsi al pensiero delle inevitabili conseguenze: “…Fu sulle sue sponde che gli storici descrivono Cesare meditabondo e roso dai dubbi. Ma il fatto è che quando Cesare giunse lì, la decisione l’aveva già presa o, per meglio dire, gliel’avevano già imposta. Pur di evitare una lotta fra romani, egli aveva accettato tutte le proposte avanzate da Pompeo e dal Senato che ormai erano una cosa sola: di mandare una delle sue scarsissime legioni in Oriente a vendicarvi Crasso, di restituirne un’altra a Pompeo che gliel’aveva prestata per le operazioni in Gallia. Ma quando il Senato definitivamente gli rispose impedendogli di concorrere al consolato e mettendolo alla scelta: o sbandare l’esercito o essere dichiarato nemico pubblico, egli comprese che, scegliendo la prima alternativa si consegnava inerme nelle mani di uno Stato che voleva la sua pelle”. I. Montanelli, Storia d’Italia 2 – Dai Gracchi a Nerone, pp.107-108.
 
Così Cesare chiama a raccolta la leggendaria XIII legione, la sua favorita, la sola che gli resta in quel momento a disposizione: “Si rivolgeva ai soldati del popolo, invitandoli a seguirlo nell’ultima, inevitabile, decisiva lotta contro la non meno odiata che disprezzata, non meno perfida che inetta e incorreggibile nobiltà, non un ufficiale, non un soldato si ritrasse… Riponendo dopo un’assenza di 9 anni il piede sul patrio suolo, Cesare fece anche il primo passo sulla via della Rivoluzione. Il dado era gettato”. T. Mommsen, Storia di Roma, Vol. VIII, pp.46-47.
 
Un dado gettato con uomini di cui non era solo il generale, ma un instancabile compagno d’armi: “Erano anni che li conduceva di fatica in fatica e di vittoria in vittoria, alternando sapientemente l’indulgenza al rigore. Quei veterani erano veri e propri professionisti della guerra, se ne intendevano, e sapevamo misurare i loro ufficiali. Per Cesare, che di rado era dovuto ricorrere alla propria autorità per affermare il proprio prestigio, avevano un rispettoso affetto. E quando egli ebbe spiegato loro come stavano le cose e chiese se se la sentivano di affrontare Roma, la loro patria, in una guerra che, a perderla, li avrebbe qualificati traditori, risposero di sì all’unanimità. Erano quasi tutti galli del Piemonte e della Lombardia: gente a cui Cesare aveva dato la cittadinanza che il Senato si ostinava a disconoscerle. La loro patria era lui, il generale”. I. Montanelli, Cit., pp.108-109.
 
E così, di seguito, alcuni tra un’infinità di passaggi bibliografici da poter scegliere sugli istanti appena precedenti il passaggio del corso d'acqua: “Lui è che da nove anni conduce le coorti e le aquile a trionfare dei più strenui nemici, da Ariovisto a Vercingetorige, Gallia e Germania, pacate da lui; la Fortuna ha convalidato il suo imperio, l’ha consacrato. “Difenderete ora il mio nome, la mia dignità”… Così Cesare decise di trarre l’alea, passando armato il confine d’Italia”. A. Ferrabino, Giulio Cesare, p.105.
 
“Giunto sulla fatidica riva si fermò… Siamo qua, posso ancora tornare indietro. Non ho ancora abbandonato la legalità e la costituzionalità… Erano decisi a sputare su di me, a schiacciare il mio viso nella polvere, a fare un nulla di Cesare. Ma Cesare non è un nulla né mai accatterà di esserlo. Tu l’hai voluto Catone E tu Pompeo… Per cancellare dal mio nome la cicatrice dell’illegalità dovrò andare in guerra, combattere contro i miei compatrioti e vincere”… Il dado è tratto gridò”. C. McCullough, Cesare – il genio e la passione, p.396.
 
“Arrivato dunque Cesare al confine, un oscuro sentimento di timore lo costrinse a fermarsi. Stando alle fonti antiche sembrerebbe che in quel momento la sua Fortuna personale abbia creduto opportuna farsi viva. E mentre il suo protetto rimirava, esitante e meditabondo, le acque del Rubicone, trovò il modo di trasmettergli un incoraggiamento significativo… Perciò montò a cavallo e, pronunciando la fatidica frase “Il Dado è tratto”, attraversò il ponticello del Rubicone. La sua frase storica si adatta perfettamente al gergo di un grande giocatore, di una persona che non sa resistere o sottrarsi alle sfide del destino, anche le più sconsigliabili. G. Antonelli, Giulio Cesare, p.121.
 
“Si fermò e restava assorto con gli occhi fissi alla corrente, riflettendo su ciascuno dei mali che si sarebbero verificati se avesse attraversato in armi quel fiume. Poi, tornato in sé, disse ai presenti: Amici, se mi astengo dall’attraversare questo fiume cominceranno per me le disgrazie; se invece l’attraverso, ci saranno mali per tutti”. A. Frediani, I Grandi generali di Roma antica, p.291.
 
LA LEGGE DEL PIÙ FORTE PER LA NUOVA ROMA
Tra il dominio assoluto su Roma e le Idi si marzo Cesare opera pienamente da uomo di Stato. Come ricorda il Mommsen “questa una delle principali particolarità che distingue Cesare da Alessandro, Annibale o Napoleone
In lui la parte del capitano è una parte pienamente occasionale… Egli fu bensì un grande oratore, letterato, e un grande capitano, ma lo fu soltanto perché era un perfetto uomo di Stato. Genio universale… Dominatore nato… Meraviglioso talento organizzatore… Monarca ma non fu mai re… Forse l’unico fra quei geni terribili che abbia conservato fino alla fine della sua vita il tatto di uomo di Stato per il possibile e l’impossibile e che sia mai venuto meno al compito… Egli ha fatto quanto fu fattibile e mai trascurò il bene possibile per correr dietro al meglio impossibile… Ma quando s’accorse che il destino aveva pronunciata la sentenza, gli fu sempre ubbidiente. Alessandro ad Aypanis e Napoleone a Mosca retrocessero perché vi furono costretti e s’adirarono colla sorte… Cesare retrocesse di propria volontà dalle sponde del Tamigi e dal Reno e non ideò nemmeno sulle rive del Danubio e dell’Eufrate piani fantastici per soggiogare il mondo intero; ma si limitò soltanto ad ottenere una conveniente delimitazione dei confini... L’operosità di Cesare non è più, come quella di Alessandro, gioiosa ansia di inoltrarsi nelle immense lontananze; Cesare si mise a edificare sulle rovine e con rovine, e fu contento di accomodarsi alla bella meglio e colla maggiore possibile sicurezza entro gli spazi stabiliti, vasti ma limitati”. T. Mommsen, Cit., pp.152-158.
 
Tutto questo “dominando Roma per 5 anni e mezzo, neanche la metà di quanto regnò Alessandro; tra sette grandi campagne belliche, che non gli permisero di restare nella Capitale del suo Stato più di 15 mesi in tutto. Egli decise i destini del mondo per il presente e per il futuro. (Cesare soggiornò in Roma nell’aprile e nel dicembre del 49 a.C. tutte e due le volte per pochi giorni; dal settembre al dicembre del 47 a.C.; circa 4 mesi d’autunno dell’anno 46 a.C. e dall’ottobre del 45 al marzo del 44 a.C.). Egli cominciò collo stabilire le linee di confine fra civiltà e barbarie, e poco per volta arrivò fino a liberare dalle pozzanghere le vie della Capitale… Così egli agì e creò come nessun altro mortale prima o dopo di lui”. T. Mommsen, Caio Giulio Cesare, pp.253-254.
 
Dunque, come considerare Cesare? Un pericoloso aspirante-re da abbattere o un fiero avversario degli ultimi residui dell’oligarchia aristocratica, e pertanto, da abbattere lo stesso? La risposta sta nel mezzo: aspira al potere assoluto per la nuova Roma imperiale ormai in arrivo dalle ceneri della decrepita Repubblica. Fantasticando sui suoi stessi pensieri possiamo trarre una lucida e ineguagliabile visione sul passaggio del Rubicone, sulla guerra civile, e infine sullo Stato da rinnovare e adeguare: “Ho precocemente giudicato errato l’assetto dello Stato romano e cercato, da principio solo nella mia mente i rimedi per correggerlo. Lo Stato soffriva anzitutto di un pericoloso squilibrio interno. Il rimedio non poteva essere che l’opposto della malattia: il riequilibrio degli interessi e delle forze sociali. L’aristocrazia mi appariva ormai incapace dei suoi compiti egemonici, e immobile o regressiva nel campo della produzione dei beni. Il ceto dei mercanti e dei banchieri era privo di potere e di esperienza politica, quindi ancor più sollecitato a curare esclusivamente la propria ricchezza. La plebe e il suo strato infimo, il proletariato, degeneravano sempre più in folla di questuanti al servizio di potentati desiderosi di imporre con la violenza il loro predominio… La guerra civile e le guerre interne di altra natura – come la ‘guerra sociale’ contro gli Italici che chiedevano la cittadinanza erano ormai da decenni una condizione permanente dello Stato romano… La guerra civile era dunque un morbo endemico, già in atto da decenni. Occorreva rompere gli indugi e rendere palesi i contrasti insanabili, cercando di risolverli, se necessario, anche con la spada. Era in gioco la mia dignità, forse anche la mia incolumità. Per queste ragioni ho gettato il dado, per porre termine – sia pure con rimedi estremi e con largo spargimento di sangue – alla malattia cronica e letale di Roma. Se non avessi preso questa decisione, altri eventi disastrosi avrebbero gettato Roma in preda all’anarchia, sino alla sua distruzione come potenza e forse anche come Città-Stato”. L. Canali, Gli ultimi giorni di Giulio Cesare, pp.57-61.
 
Ha le idee chiare, ha in mente una vera e propria ricostruzione della società e delle Istituzioni, una rivoluzione che mette il turbo alla congiura: “Il Senato lo ridusse ad un corpo puramente consultivo, dopo averne portato i membri da sei a novecento con l’immissione di nuovi elementi scelti parte tra la borghesia di Roma, parte tra quella di provincia, parte tra i suoi vecchi ufficiali celti, molti dei quali erano figli di schiavi. Questa manovra faceva parte di un più vasto progetto che Cesare aveva abbozzato quando aveva concesso la cittadinanza alla Gallia Cispadana. Il Senato non aveva mai convalidato quella misura; ma ora dovette accettare ch’essa venisse estesa a tutta l’Italia. Cesare aveva capito che non c’era più nulla da sperare dai romani di Roma, ormai ammolliti, imbastarditi e incapaci di fornire altro che degl’intrallazzatori e dei disertori. Egli sapeva che il buono era solo in provincia, dove la famiglia era rimasta salda, i costumi sani, l’educazione severa. E con questi provinciali di origine contadina quanto piccoloborghese intendeva riformare i quadri della burocrazia e dell’esercito”. I. Montanelli, Cit., pp.121-122.
 
Ma ha bisogno di tempo che non ha se sono veri tutti i sussurri e i pettegolezzi che corrono dritti verso le Idi di marzo. Soprattutto non coglie l’occasione per mettere in sicurezza quanto più possibile il suo corpo con le feroci ma note liste di proscrizione che possono liberarlo dalla gran parte dei nemici e procurargli ingenti risorse economiche.
In questo modo Silla ha decenni prima governato Roma, impostato riforme, morendo nel suo letto. Così faranno Marco Antonio e Ottaviano poco tempo dopo le ventitré pugnalate di cui, pare, solo una davvero mortale: “…Cercò di divincolarsi ma tutti lo tenevano e lo colpivano con armi affilate. Non sentiva dolore, come se non il corpo ma solo la mente gli appartenesse, una mente capace di risparmiargli il dolore fisico ma non il ribrezzo dei tessuti tagliati e torturati.
E in quel momento comprese che non c’era più tempo per nulla, non per difendersi, non per invocare aiuto o chiedere pietà e, mentre barcollava, spinto dall’uno all’altro dei suoi assassini, ebbe il pudore della sua veste discinta, della fascia che copriva il suo inguine e che la toga strappata lasciava scoperto. Così, come se la sua dignità potesse essere offesa dalla gambe nude, raccolse i lembi della toga e si coprì la parte bassa del corpo, poi cadde in ginocchio e infine si distese lentamente su un fianco. Udiva ancora le voci concitate intorno a sé, ma non gli importava che cosa dicessero e si rannicchiò in posizione fetale per consegnarsi al profondo sonno che lo aveva invaso”. G. Antonelli, Gli uomini che fecero grande Roma antica, p.229.

 
 



 

Nessun commento:

Posta un commento