20 dicembre 2011

MONTECUCCOLI, UN ITALIANO AL COMANDO DEL SACRO ROMANO IMPERO

Le imprese di un glorioso condottiero fuori dall’italietta preda di ogni invasore. Da soldato semplice a Principe del Sacro Romano Impero, tra i più grandi comandanti del XVII secolo, trionfatore su polacchi, svedesi, francesi e difensore dell’Europa cristiana dai turchi alle porte di Vienna
 
LA NASCITA DI UN MITO NELL’EUROPA DELLE GUERRE
Con la Pace di Vestfalia (1648) terminò la Guerra dei trent’anni (1618-1648), conflitto che coinvolse le maggiori potenze europee, un po’ per lo scontro religioso tra cattolici e protestanti un po’ per l’egemonia sul continente. Tra le principali conseguenze: la lenta ma inesorabile decadenza della Spagna, la supremazia della Svezia a Nord, la permanenza di Italia e Germania in staterelli frammentati, e le ambizioni contrapposte di Francia e Austria; quest’ultima intenzionata a “farsi impero” e baluardo dell’Occidente cristiano contro i turchi padroni dei Balcani e parte dell’Ungheria. Fu proprio Raimondo Montecuccoli, tra i più celebri condottieri del XVII secolo, a sbaragliare gli Ottomani nella guerra più tragica combattuta dagli Asburgo sovrani d’Austria e del Sacro Romano Impero. Un esempio di grande italiano costretto a cercare in terre straniere tutto quello che non poteva trovare in un’Italia consumata da perenni discordie interne e dominata dagli invasori.

IL PRETE MANCATO AL COMANDO DEGLI ESERCITI IMPERIALI
Raimondo Montecuccoli nacque nel Castello di Montecuccolo (1609) nel modenese. Respirò gloria e valore sin da piccolo per via delle imprese di suo padre, Galeotto, contro i turchi in Croazia militando negli eserciti imperiali come in quell’epoca era uso tra i principi italiani. Alla morte di Galeotto, Raimondo – il più grande di sette figli – seguì a Roma il Cardinale Alessandro d’Este, alle cui cure era stato affidato, per essere avviato alla carriera ecclesiastica. Ma alla successiva morte del Cardinale, Raimondo si trasferì in Germania per intraprendere la carriera delle armi alla quale si sentiva più votato. Avrebbe potuto esser nominato subito ufficiale, sia per la nobiltà della sua famiglia sia per le alte protezioni di cui godeva, ma volle cominciare da soldato semplice.
Il suo esordio militare, sotto la guida del famoso generale austriaco Albrecht Von Wallenstein, coincise con alcune fasi della Guerra dei trent’anni: Partecipò all’assedio di Amersdorf, entrando per primo nella breccia aperta nelle mura nemiche con la bandiera imperiale spiegata; poi, già capitano a 22 anni, riuscì con astuzia e coraggio ad entrare in Neubrandeburg impadronendosi della piazzaforte.
 
Nel 1639 cadde prigioniero degli svedesi e venne imprigionato per tre anni nel Castello di Stettino in Pomerania. Nello sconforto della prigionia, Montecuccoli cercò rifugio nello studio; storia militare e storia politica i suoi interessi. In quel periodo scrisse anche il trattato “Delle Battaglie”. Una volta liberato tornò a Modena dove il duca Francesco I d’Este aveva bisogno della sua opera. Ma il soggiorno fu breve. Ritornò a Vienna in qualità di maresciallo di campo per assumere il comando del corpo d’esercito imperiale diretto in Slesia durante l’ultima fase della Guerra dei trent’anni. Ben presto si ritrovò comandante supremo dell’esercito imperiale e sconfisse svedesi e francesi, liberando Boemia e Moravia.

Ciò gli valse il comando generale della cavalleria imperiale. Un’ascesa irrefrenabile che lo portò al servizio dell’Imperatore Leopoldo I d’Asburgo ad affrontare la Polonia ed espugnare Cracovia. Da qui nominato comandante supremo degli eserciti imperiali.





                     
GLORIA IMMORTALE CONTRO TURCHI E FRANCESI
Intanto i turchi avevano nuovamente invaso l’Ungheria e Montecuccoli, nuovo maresciallo di campo generale, prese la guida della battaglia tra il 1663-1664. Una guerra tragica tra circa 60.000 turchi ed un esercito imperiale ridotto a meno di 20.000 uomini: “Quest’Occidente si ricordava di rado d’essere cristiano, di solito preferendo lasciare il suo bastione a sbrigarsela da solo. Così l’antimilitarista Leopoldo… trovò un grande generale in un italiano, il Montecuccoli, che con poche forze sbaragliò gli Ottomani…”. I. Montanelli, Storia d’Italia 1600-1789, p.305.

Il condottiero manovrò continuamente le truppe costringendo i turchi a mutar sede della battaglia portandola sul fiume Raab. Mantenendo intatte le scarse forze, Montecuccoli si ritrovò sul teatro di guerra in una posizione che gli dette il sopravvento. Puntando più sul fuoco incessante che sulla forza d’urto, riuscì a sconfiggere irrimediabilmente i soldati del Gran Vizir Ahmed Koprulu con attacchi sulle ali nemiche per ammassarne il centro in spazi ristretti di manovra. Ancora una volta nella storia si impedì alla mezzaluna di dilagare in Occidente. Per questa vittoria l’imperatore lo nominò tenente generale dei regni e Province ereditarie e di tutti gli eserciti del sacro Romano Impero. Tornò quindi a Vienna da trionfatore pensando di potersi ritirare e dedicarsi a studi e famiglia. Ma non era ancora tempo di riposo!!!
 
Nel 1672 la Francia di Luigi XIV invase l’Olanda e l’Europa ripiombò di nuovo in guerra.
Più che una guerra!!! Uno scontro del destino sul Reno tra i due più grandi capitani dell’epoca: Montecuccoli e Henri de La Tour d’Auvergne, Visconte di Turenne e Maresciallo di Francia. Ne venne fuori un conflitto basato su continue strategie e gare di abilità con i francesi, tuttavia, quasi sempre in ripiegamento. Fin quando lo stesso Turenne non venne ucciso da una cannonata nella battaglia di Salzbach, cosicché l’esercito francese ormai senza capo fu duramente sconfitto a Goloschier. Fu questa l’ultima battaglia di Montecuccoli che uscì sempre vittorioso da tutte le campagne condotte come comandante in capo. Stanco di guerre, con l’ultima nomina di Principe del Sacro Romano Impero, si ritirò a Linz non prima di aver lasciato in eredità da teorico militare un vero e proprio esercito asburgico regolare e permanete: “Grande riformatore convinto assertore della superiorità e dell’efficacia delle artiglierie sulle armi bianche. A tal fine… propugnò l’adozione di un nuovo tipo di moschetto più leggero, e incrementò la percentuale dei moschettieri rispetto a picchieri; inoltre, creò delle unità d’élite di fanteria costituite dai granatieri… Grande organizzatore, Montecuccoli migliorò anche i sistemi di pagamento e di equipaggiamento delle truppe, che seppe motivare con maggiori incentivi e condizioni di vita più accettabili… il suo motto più celebre riguardava l’elenco delle tre cose necessarie per fare la guerra: denaro, denaro, denaro”. A. Frediani, I grandi condottieri che hanno cambiato la storia, pp. 381-383.
 
Morì nel 1680, non rinunciò mai alla sua nazionalità tanto da scrivere sempre in lingua italiana sia le sue opere che la corrispondenza con l’Imperatore e la corte di Vienna.


14 dicembre 2011

FRANCESCO FERRUCCI, L’UOMO MORTO UCCISO DA UN “MARAMALDO”

Vita e morte di un condottiero contro la tirannide in un’Italia che dice addio al Rinascimento e torna preda degli appetiti di tutti. Papi ed eserciti stranieri riempiono i cimiteri soffocando la libertà nella sanguinosa resistenza della Repubblica fiorentina
 
…SUL FINIRE DEL RINASCIMENTO
Con la fine della vitalità e dello spirito rinascimentale l’Italia è nuovamente terreno e preda di battaglia dei grandi imperi (Francia, Spagna, Sacro Romano Impero) e del Papato, in uno stravolgimento continuo di alleanze. Tra delicati scenari politici, progetti di accentramento del potere e dispotismo, la piccola Repubblica di Firenze cerca di opporsi al ritorno dei Medici cacciati dal dominio sulla città sin dal 1494. L’eroe di questa resistenza è Francesco Ferrucci, valoroso soldato e condottiero italiano nell’era dei capitani di ventura. La tragica pagina di storia di un eroe patriottico contro la tirannide. Siglata la pace tra Papa Clemente VII e Carlo V, che porta il primo a riaffermare l’influenza del Papato e il secondo a cingere la corona Imperatore sacro e romano, la Repubblica di Firenze – nata dalla cacciata a più riprese dei Medici e ispirata da Girolamo Savonarola – si ritrova da sola a difendere la sua indipendenza dalle mire del Pontefice che intende ripristinare la supremazia della sua famiglia ricorrendo all’aiuto dell’esercito imperiale.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FIRENZE MANGIA TOPI E I CIMITERI PIENI DELLA CUPIDIGIA DEI PAPI
Le spese della pace le paga quindi Firenze che “appassionatamente attaccata alla sua Repubblica, non volle arrendersi al diktat imperiale. Per recuperarla alla sua famiglia, Clemente versò settantamila ducati al principe Filiberto d’Orange che la conquistasse con le sue truppe… Assediata, Firenze distrusse tutti i suoi stupendi giardini per impedire che gli assalitori vi trovassero riparo… Oro, argenteria, gioielli, furono spontaneamente offerti da chiese e famiglie private e fusi per farne moneta con cui procurarsi armi e munizioni. Michelangelo abbandonò le sue sculture nella cappella medicea per costruire forti e bastioni… La carestia ridusse i fiorentini a nutrirsi di ghiande e di topi… La repressione riempì i cimiteri e le galere… A questo risultato aveva condotto la politica dei Papi e la loro cupidigia di potere temporale. A saldare il conto dei loro errori era l’Italia, ridotta a colonia della Spagna”. I. Montanelli, Storia d’Italia, 1250-1600, pp.460-461.
 
2.000 CONTRO 20.000
Eroe fiorentino tra i più memorabili della sua epoca (1489-1530), Francesco Ferrucci nasce a Firenze da una nobile famiglia. I primi anni della sua gioventù li trascorre occupandosi di commercio ma ben presto mostra la sua personalità e la sua propensione all’uso delle armi, rivelando eccezionali qualità di comandante. Con Firenze minacciata dalle milizie di Carlo V, il Ferrucci viene nominato commissario con pieni poteri su Empoli e da lì organizza la difesa della città e il vettovagliamento. Le sue doti d’uomo d’armi non tardano a svelarsi e permettono di conseguir vittorie a Val Di Pesa, Val D’Elsa, Val D’Era e Volterra. Ma le forze imperiali sono dieci volte superiori alle sue bande e tutte premono su Firenze. Egli concepisce il piano temerario di prendere il nemico alle spalle partendo da Pisa.
 
Un anonimo poeta così tramanda il suo proclama ai soldati: “Io per esperienza, soldati fortissimi, so che le parole non aggiungono gagliardia nei cuori generosi, ma sì bene che quella virtù, che è dentro rinchiusa, allora si dimostra più viva se l’occasione o la necessità la costringe a far prova di sé. L’occasione vedete è bellissima, e sopra ogni altra è onoratissima che ci dimostra, difendendo a giusto petto l’onore delle armi italiane per la libertà della nobilissima patria nostra, per farci splendere per tutti i secoli di chiara luce. La necessità ci è presente, davanti agli occhi che ci fa certi, che, ritirandoci, saremo raggiunti dalla cavalleria nemica, e che stando fermi non avremo luogo forte da poter difenderci né vettovaglie da poter vincere, quanto bene prima entriamo in quelle mura… Né benché siamo meno di numero, ci dobbiamo diffidare, per l’esperienza, oltre a quella della virtù nostra, e maggiormente confidare in Dio Ottimo Massimo, che giustissimo e conoscitore del nostro buon fine, supplirà con la potenza, dove mancasse la forza nostra”.
…Ma sono pur sempre 2.000 contro 20.000!!! L’impeto degli assalti e il valore dei suoi uomini cedono di fronte alla stragrande maggioranza dei nemici.
 
“TU UCCIDI UN UOMO MORTO” E L’INNO D’ITALIA
Ferrucci esce da Pisa il 31 luglio 1530 e per le montagne del lucchese e del piemontese scende a San Marcello. A Gavinana, il 3 agosto, i suoi soldati si scontrano con quelle d’Orange e di Fabrizio Maramaldo, capitano di ventura al comando di una delle colonne imperiali. La lotta è aspra, Filiberto d’Orange viene ucciso con due colpi d’archibugio, ma anche Ferrucci cade gravemente ferito e prigioniero; portato poi agonizzante vicino a Maramaldo che finisce di ucciderlo sfogando tutto il suo livore dopo che i soldati avversari non hanno osato alzare le mani sul comandante ferito. “Tu uccidi un uomo morto” esclama con disprezzo Ferrucci prima di spirare.
Con lui muore anche la Repubblica fiorentina ma resta vivo in una strofa dell’inno d’Italia: Dall'Alpi a Sicilia dovunque è Legnano, ogn’uom di Ferruccio
ha il core, ha la mano, i bimbi d'Italia si chiaman Balilla, il suon d'ogni squilla i Vespri suonò. Stringiamci a coorte siam pronti alla morte l’Italia chiamò”.
“Forse il coraggio e la tenacia di Firenze sarebbero stati premiati se il generale a cui essa aveva affidato il comando delle proprie milizie, Malatesta Baglioni, non avesse tradito. Egli volse le sue artiglierie contro la stremata città che da quel momento fu alla mercé del nemico”. I. Montanelli, Storia d’Italia, 1250-1600, p.460.
 
Alessandro de’ Medici fu il nuovo duca di Firenze, per nulla Magnifico come l’illustre parente. “Ne andò di mezzo perfino la bella squillante campana di Palazzo Vecchio… La fece fondere perché – come scrisse un cronista – la gente non sentisse più il dolce suono della libertà”. I. Montanelli, Cit., p.461.
 
 
 
 



1 dicembre 2011

CARLO FELICE DI SAVOIA, RE “PER CASO” CHE ISPIRÒ LO STATUTO ALBERTINO

Le contraddizioni di un reazionario e “repressore” che attua un’intensa attività legislativa per il suo regno e una fondamentale riforma della giustizia. Protagonista dell’eclettismo giuridico della Restaurazione post napoleonica che paradossalmente apre la strada alle speranze costituzionali dei popoli italiani preunitari
 
Waterloo 1815: la fine del dominio napoleonico sull’Europa riporta al trono i vecchi regnanti spazzati via dall’ondata rivoluzionaria francese, e avvia un processo di Restaurazione dei sistemi di governo e degli antichi poteri d’Ancien Régime; immobilità delle stratificazioni sociali, appartenenza ad esse per nascita, diseguaglianza giuridica, assolutismo regio e discendenza divina della sovranità. Presto si dimostrerà nei fatti l’impossibilità di tornare davvero all’antico per via dell’enorme difficoltà nel rimuovere l’eredità rivoluzionaria sulle istituzioni politiche, gli ordinamenti giudiziari e la vita sociale. Così anche il caso del Regno Sardo-piemontese e di Carlo Felice di Savoia, reazionario per formazione e riformista suo malgrado davanti alla fortissima influenza delle metamorfosi sociali apportate dalla Rivoluzione e dalla codificazione napoleonica. Con l’Editto 27 settembre 1822 lancia una fondamentale riforma della giustizia, evidente richiamo ad una delle rivendicazioni principali del Terzo Stato francese agli Stati Generali del 1789: “Dunque sostituire ad una giustizia arbitraire et inhumaine un sistema del tutto nuovo, ispirato dal giusnaturalismo illuministico e modellato intorno alle istituzioni inglesi, fu l’obiettivo del legislatore costituente”. P. Alvazzi del Frate, Riforme giudiziarie e Rivoluzione francese, p.459.
 
In breve emerge con evidenza che il potere restaurato non riesce a capovolgere gli effetti dell’incontenibile spinta rivoluzionaria con cui “fu abolito l’ordinamento corporativo e abrogato il sistema dei privilegi su cui si basava l’Ancien Régime, mentre furono proclamate la parità di ogni cittadino di fronte alla legge, la giustizia eguale per tutti, la netta separazione fra potere legislativo, esecutivo, giudiziario”. G. S. Pene Vidari, Aspetti di storia giuridica del XIX secolo, p.165.
 
UN TRONO INASPETTATO, 1821-1831
Carlo Felice nasce a Torino il 6 aprile 1765 da Vittorio Amedeo III, poi re di Sardegna, e da Maria Antonia di Borbone, figlia di Filippo V re di Spagna. Studia con i fratelli sotto la guida di vari precettori ma, non essendo destinato al trono poiché quarto dei figli maschi viventi, non gli si riserva alcuna formale istruzione negli affari di Stato: “A questo fatto possono… essere ricollegati alcuni suoi atteggiamenti nel concepire e nell’esercitare il potere: il dommatismo della sua fede nell’origine divina dell’autorità regia, il carattere ossessivo del suo misoneismo, il moralismo di tipo paternalistico come metro di giudizio dei fatti politici, la proterva intolleranza di divergenze e di opposizioni. …Tormentato da crisi nervose; …temperamento coerente e inflessibile, …chiuso, diffidente, impulsivo; …di animo onesto, sincero, capace di commozione e di tenerezza, ma anche suscettibile, astioso e vendicativo; …mente perspicace, capace a volte perfino di autoironia, ma anche culturalmente piuttosto sprovveduta e non molto duttile”. G. Locorotondo, Carlo Felice, pp.365-366.

Nominato viceré della Sardegna dopo la cacciata dal Piemonte nel 1798 ad opera dei francesi, Carlo Felice dedica all’isola grandi cure: iniziative per favorire la raccolta degli ulivi e la creazione di una Società agraria ed economica; crea un ufficio per l’amministrazione delle miniere, dei boschi e delle selve. Non potendo aumentare le imposizioni dirette o indirette, ricorse a contributi volontari, prestiti e vendita di feudi, titoli nobiliari e cavalierati, o all’alienazione dei beni demaniali. Organizza anche un programma di opere pubbliche ed umanitarie attingendo spesso ai suoi fondi personali. Questa azione legislativa si conclude il 16 gennaio 1827 con la promulgazione delle Leggi civili e criminali pel Regno di Sardegna, una sorta di “codice” a carattere compilatorio simile alle costituzioni piemontesi del 1770. L’abdicazione di Napoleone, il 6 aprile 1814, e l’ingresso degli austriaci a Milano, il 28 aprile, creano le condizioni per il ritorno sul trono di Vittorio Emanuele I in Piemonte il 20 maggio. Carlo Felice conserva la carica di viceré della Sardegna, ma nel 1816, a seguito dello scoppio della peste, torna a Torino allontanandosi dalla politica. La mancanza di discendenti del re, che abdica successivamente allo scoppio dei moti del 1821, e la morte del terzo fratello conducono Carlo Felice al trono.
 
IL RE DEGLI EDITTI TRA REPRESSIONE E RIFORME: L’ECLETTISMO GIURIDICO DELLA RESTAURAZIONE
Quale sia lo spirito con cui Carlo Felice vuole inaugurare il suo regno, risulta fin dal primo proclama ai sudditi il 16 marzo 1821: “Ben lungi dall’acconsentire a qualunque cambiamento nella forma di governo preesistente alla detta abdicazione del Re, nostro amatissimo fratello, consideriamo sempre come ribelli tutti coloro dei Reali Sudditi, i quali avranno aderito o aderiscano ai sediziosi, o i quali si saranno arrogati o si arrogheranno di proclamare una costituzione…”. A. Aquarone, La politica legislativa della Restaurazione nel regno di Sardegna, p.159.
 
“Il nuovo re Carlo Felice diede corso alla reazione con arbitrari metodi repressivi, mediante commissioni straordinarie per giudicare i ribelli e giunte d’inquisizione politica per l’epurazione dell’esercito e della burocrazia”. G. Astuti, Gli ordinamenti giuridici degli Stati sabaudi, p.544.
 
Tuttavia la reazione del restaurato assolutismo non sarà, per certi versi, troppo severa: delle settantuno condanne a morte, pronunciate da un’apposita commissione militare, tre vengono eseguite; solo trecentodiciotto ufficiali sostituiti o giubilati nelle file dell’esercito e così anche nella pubblica amministrazione l’epurazione è condotta da una commissione di scrutinio, ma nella maggior parte dei casi ci si limita a sospensioni temporanee dai rispettivi uffici, oppure a trasferimenti o soltanto ad una “severa ammonizione”. Terminata la prima fase repressiva dei moti costituzionali, Carlo Felice decide di ritornare a Torino nell’ottobre 1821 e, anche in conseguenza delle sfavorevoli ripercussioni che presso numerose corti europee hanno avuto i sistemi di governo dei suoi primi mesi di regno, già il 30 settembre emana un editto che stabilisce l’indulto in favore di quanti sono stati implicati nei moti escludendo, però, da tale beneficio capi e promotori, fiancheggiatori e tutti i colpevoli di omicidio o estorsione.
Insomma, contrariamente ai suoi esordi, il governo di Carlo Felice segna una ripresa di attività normativa che porta ad alcune riforme istituzionali con infarciture francesi: L’Editto 16 luglio 1822 per il riordino del sistema ipotecario piemontese, ristabilendo il rigoroso principio della pubblicità e della specialità delle ipoteche; l’Editto 27 agosto 1822 sul diritto penale militare, riunendo e coordinando le norme preesistenti in materia, sparse in fonti di epoche diverse; l’Editto 27 settembre 1822 per la riforma del sistema giudiziario; Leggi civili e criminali pel Regno di Sardegna, 16 gennaio 1827, per riorganizzare un corpo legislativo disordinato e frammentario.
Tale percorso ha il regno di Carlo Felice, tra reazione e riforme, in definitiva un’opera legislativa che segue il filone del cosiddetto eclettismo giuridico della Restaurazione: “Carlo Felice, come ogni uomo della Restaurazione, che comprende a un tempo sia i reazionari sia gli innovatori, ha maturato molteplici esperienze e appare oscillante tra l’aperto richiamo al dispotismo settecentesco, il cui sbocco era lo stato napoleonico, e suggestioni storicistiche, peraltro, in Italia, scarsamente fortunate... Da un lato si è in presenza di un tipico sforzo di aggiornamento dell’assolutismo dinastico, dall’altro, in tale sforzo si attua una recezione sostanziale della normativa francese, seppure con eccezioni e modificazioni”. E. Genta, Eclettismo giuridico della Restaurazione, pp.357-362.
 
GIUSTIZIA ALLA FRANCESE
La Rivoluzione quale “grande crisi che determinò la formazione di un nuovo ordine politico-giuridico e di un nuovo tipo di civiltà, fondato sopra principi che mai si sarebbero potuti affermare nella realtà storica senza una netta e violenta frattura rispetto all’Ancien Régime… Da qui al sistema giudiziario napoleonico che rimase in vigore nella nostra penisola solo per pochi anni, ma la sua superiorità sugli ordinamenti antecedenti era tale da destinarlo inevitabilmente ad esercitarvi… una lunga influenza. I magistrati diventavano un moderno corpo di funzionari pubblici, nominati dal governo, inquadrati in un rigido sistema gerarchico articolato in molteplici gradi, e sottoposti alla sorveglianza della corte di cassazione, presieduta dal ministro della giustizia o Grand Juge. Pochi uffici giudiziari restarono in vita, coordinati fra loro: giudici di pace, tribunali, corti di appello, corte di cassazione e corti di assise… Nasceva un nuovo tipo di Stato, con un ordinamento costituzionale diretto a garantire i diritti di libertà politica e civile dei cittadini solennemente sanciti da una dichiarazione… Al vecchio sistema pluralistico delle fonti del diritto comune e dei diritti particolari… si veniva sostituendo, con la codificazione, un sistema organico, unitario, di norme legislative ordinatamente raccolte in codici, articolate in forma concisa e precisa, senza contraddizioni lacune, ispirate ai principi politici, economici, sociali dell’Illuminismo”. G. Astuti, Cit., p.532.
 
Nel campo giuridico l’eguaglianza civile, che rinnova radicalmente quel sistema di rapporti fondato su privilegi e immunità di ceto sia nel diritto pubblico che nel diritto privato o criminale, è destinata a trasformare profondamente la vita sociale, a creare una società di cittadini liberi ed eguali nel diritto. “Il regime napoleonico determinò la formazione di un nuovo ceto dirigente, in massima parte borghese, di magistrati, funzionari, ufficiali, consapevoli delle proprie possibilità e ricchi di esperienze preziose: dopo la caduta di Napoleone, essi rappresentarono la vera élite italiana, che doveva promuovere i primi moti risorgimentali, e affermarsi nei diversi Stati come l’elemento fondamentale del processo di unificazione nazionale”. G. Astuti, Cit., pp.536-537.
 
L’EDITTO 27 SETTEMBRE 1822: DALLE SPORTULE AL PROCURATORE DEI POVERI
Carlo Felice trova questo scenario e l’impossibilità di riuscire a reprimerlo. L’organizzazione giudiziaria d’Ancien Régime non può sopravvivere di fronte all’affermarsi di idee sull’uguaglianza e sulla necessità di un nuovo sistema richiesto dallo sviluppo economico. È quindi logico che venga completamente modificata dalle riforme del periodo “giacobino” e napoleonico, e che, come si è visto, i tentativi di ritorno all’antico dei primi anni della Restaurazione non possono servire ad altro che a dimostrare la concreta incapacità di un tale ritorno. Vittorio Emanuele I ha già ripristinato l’antica legislazione e numerose giurisdizioni speciali: la cancellazione delle grandi riforme del diritto civile, penale, processuale; l’abolizione dell’eguaglianza giuridica dei cittadini, il ripristino delle disparità dipendenti dagli Status o dalla fede religiosa; dalla certezza del diritto nuovamente alla confusione e insicurezza di ogni rapporto conseguente all’annullamento dei diritti acquisiti sotto l’impero della legislazione francese. Se la Rivoluzione sviluppa un sistema basato sull’abrogazione dei privilegi d’Ancien Régime, sulla uguaglianza di ogni cittadino di fronte alla legge, sulla netta separazione fra potere legislativo, esecutivo e giudiziario; la Restaurazione invece ristabilisce il sistema delle sportule, contributi che i privati devono pagare ai giudici per ottenere giustizia e che penalizzano i ceti meno abbienti: “Le sportule consistevano in una somma che i litiganti delle cause civili dovevano pagare al giudice in proporzione del valore della cosa litigiosa, e che i condannati in criminale gli dovevano pagare in proporzione dell’ammontare pecuniario della condanna. Nelle cause civili la sportula era rappresentata dal due o tre per cento, nelle cause penali da una somma graduale, in rapporto alla pena… Questo legame di dare e avere fra il giudice e le parti non era soltanto indecoroso, immorale e contraddicente al concetto dell’essere la giustizia un dovere dello Stato verso i cittadini, ma spingeva i magistrati a ricercare e sollecitare le cause ricche, i processi contro persone doviziose, e nei processi li istigava alle condanne”. E. Piola Caselli, La Magistratura. Studio sull’ordinamento giudiziario nella storia, nelle leggi straniere, nella legge italiana e nei progetti di riforma, p.51.
 
Ma “per quanto il governo si studiasse di rifare lo Stato sul modello antico, esso non poteva rimanere affatto sordo alle voci del maggior numero dei suoi sudditi che malissimo contenti dell’avviamento preso da chi li reggeva, chiedevano leggi conformi alla ragione ed alle esigenze dei tempi. Si ponea quindi innanzi l’idea di una certa quale riforma che colmasse qualche lacuna…”. F. Sclopis, Storia della legislazione italiana dall’epoca della Rivoluzione francese, 1789, a quella delle Riforme italiane, 1847, p.206.
 
Così il 27 settembre 1822 viene promulgato l’Editto sulla riforma dell’ordinamento giudiziario: “L’editto riorganizzava i primi gradi di giustizia dividendo il Regno, Sardegna esclusa, nei circondari di 40 tribunali di prefettura, dai quali dipendevano 416 giudicature di mandamento, risistemando quindi in modo uniforme l’amministrazione giudiziaria di terraferma… Venivano abolite alcune delle antiche giurisdizioni speciali, come la giunta sopra i delitti di gioco d’azzardo o il regio capitanato della darsena. Si rendeva infine la giustizia gratuita, almeno tendenzialmente... La nuova legge… sostituiva all’antico sistema delle sportule, una specie di tasse giudiziarie, di importo non trascurabile, che le parti in causa pagavano direttamente ai giudici e che costituivano la maggior parte delle loro retribuzioni, un regolare sistema di stipendi a carico del bilancio dello Stato”. P. Saraceno, Storia della magistratura italiana. Le origini – la magistratura nel Regno di Sardegna, pp.40-41.
 
“Con questo editto vennero creati in tutti i capoluoghi di provincia i tribunali collegiali, che prima… esistevano in tre sole provincie, abolendosi così l’antica magistratura singolare dei prefetti… Furono chiamati “tribunali di prefettura”, e vennero divisi in quattro classi, secondo la importanza dei luoghi, affidandosi poi a speciali membri di questi tribunali l’istruzione dei processi. Sotto dei tribunali e dei loro dipendenti vi erano 416 giudicature di mandamento, pur esse divise in quattro classi con assegnamento diverso di stipendi… Mantenuta la competenza civile e penale del Senato e della Camera dei conti, furono, però, abolite molte giurisdizioni speciali e, riforma sovratutto importantissima, furono sostituiti ai diritti di regalìa, sportule, relazione, ecc., precedentemente in uso, stipendi fissi, sia per i magistrati maggiori che per i minori, distinti nel loro ammontare, secondo il grado giudiziario, non solo, ma secondo l’importanza dei tribunali in ordine alle varie circoscrizioni”. E. Piola Caselli, Cit., pp.226-227.
 
“Le giurisdizioni eccezionali e privilegiate vengono ridotte ma non abolite; si istituiscono i giudici di mandamento e i tribunali collegiali di prefettura come organi di prima istanza per le cause civili e si adotta il doppio grado di giurisdizione eliminando la pluralità degli appelli; si istituisce l’avvocato fiscale con funzioni di pubblico ministero; si abolisce finalmente il sistema delle sportule sostituendolo con stipendi ai magistrati (che comunque rimangono revocabili dal Re)”. M. Taruffo, La giustizia civile in Italia dal ‘700 ad oggi, p.94.
 
Così come l’Editto provvede a ridefinire il ruolo degli Avvocati fiscali, allo stesso modo ribadisce l’importanza delle funzioni del Procuratore dei poveri, un istituto assai antico e particolare nella storia del nostro paese. Esso si concretizza principalmente attraverso l’istituzione, nel foro, di un difensore con lo specifico incarico del patrocinio degli interessi dei poveri. La riforma pertanto apre la strada ad una sorta di “convivenza” tra il modello francese e le antiche Costituzioni piemontesi perseguendo un maggior grado di razionalità ed efficienza. Certamente ancora non bastano i provvedimenti introdotti da Carlo Felice ma, seppur timidi e limitati ad alcuni specifici settori della legislazione, hanno indubbiamente il merito di aver avviato una stagione di riforme che giungerà a maturazione nel successivo regno di Carlo Alberto.
 
 

24 novembre 2011

SURENA, IL “VIETCONG” CHE UMILIÒ E SVEGLIÒ I ROMANI

Carre 9 giugno 53 a.C. Roma perde le sue aquile e scopre di non essere la sola padrona del mondo. Storia di una disfatta tra la fine della Repubblica e la nascita dell’Impero degli imperi. Il lento abbandono dell’illusione del dominio sugli spazi infiniti segna la supremazia storica su ogni epopea
 
IL TOPO E L’ELEFANTE
Vietnam, dalla guerra combattuta e persa dagli Stati Uniti, è anche una metafora per indicare la sconfitta imprevedibile di una perfetta macchina bellica contro tecniche di guerriglia, in territori non convenzionali. Il topo contro l’elefante, e il topo vince. Vietcong è il guerrigliero che morde e scappa, è il topo che vince. Una certa storiografia farebbe risalire un primo esempio di questo genere alla terribile sconfitta inferta dall’esercito dei Parti, guidati del generalissimo Rostam Surena-Pahlavi, alle legioni romane di Marco Licinio Crasso. Un vero disastro che tuttavia non pregiudica il destino dei Romani, ma ne influenza le linee d’azione in politica estera e militare. Roma comincia a comprendere che la sua esistenza non si fonda sull’eterna conquista ma sull’amministrazione “politica” della sua grandezza: non un imperialismo indefinito ma una struttura imperiale che ruota attorno all’idea di Stato, diritto, economia, riforme e comunità sociale; sopravvivendo così ai “capricci” del despota di turno, e segnando in modo indelebile, anche dopo il suo declino, lo sviluppo del mondo.
 
SURENA E CRASSO, LE AQUILE PERDUTE E LE TESTE MOZZATE
La battaglia è dominata dall’intelligenza tattica di Surena che lega storicamente il suo nome alla consacrazione delle aquile (insegne militari romane) strappate al suo avversario, appropriandosi così di un potente simbolo di vittoria. Ma chi è? Dignitario partico della famiglia dei Suren è l’uomo più potente dell’Impero dopo re Orode: “Surena o, meglio, il Surena, qualifica di una specie di presidente della corte suprema partica depositaria del compito di designare il re tra gli aventi diritto alla successione, era un giovane di trent’anni con l’abitudine e l’aspetto tipici delle persone del suo rango: fasto pomposo e ingombrante nelle vesti, capelli inanellati e profumati e il solito bagaglio di concubine al seguito. Particolari che si compongono in un’immagine alquanto debosciata non raccomandabile in un generale che si appresta ad affrontare le nostre legioni, ma che costituiscono un contrasto affascinate quando siano accompagnati da intrepida spregiudicatezza, fantasia rapida e percezione precisa delle situazioni”. G. Antonelli, Il libro nero di Roma antica, p.46.
 
Un personaggio dall’immagine non certo asciutta come l’essenzialità romana: “Il comandante partico sfoggiava un lusso orientale destinato ad impressionare sudditi e nemici. Nei suoi spostamenti privati portava sempre mille cammelli con i cavalli e duecento carri di concubine, e per la scorta mille cavalieri corazzati e un numero ancor maggiore di cavalleggeri: in totale, con lui non vi erano meno di diecimila uomini tra cavalieri, servitori e schiavi”. G. Traina, La resa di Roma – 9 giugno 53 A.C, pp.58-59.
 
Così carnevalesco il suo ambiente ideale quanto invece sostanziale e vincente la sua strategia: “Le sue truppe composte esclusivamente di catafratti e di arcieri a cavallo non superavano le 10.000 unità. Di fronte ai 35.000 Romani potrebbero sembrare poco numerosi. Ma, nell’aver limitato il contingente dei suoi squadroni, Surena ha dato prova oltre che di audacia anche di genialità strategica. In questo modo infatti ha semplificato il problema dei rifornimenti, ha acquistato maggiore mobilità e ha evitato la confusione derivante dall’assieparsi in campo di sterminati corpi di cavalleria”. G. Antonelli, Cit., p.46.
 
Una strategia non sconosciuta ai Romani ma, in quella circostanza, forse un po’ troppo fiduciosi nella sola forza d’urto delle legioni: “In realtà… usavano sia la cavalleria pesante (anche se non corazzata), sia quella leggera, poiché gli assalti della cavalleria potevano ancora essere molto efficaci contro corpi di fanteria male organizzati. In particolare, la mancanza delle staffe non impediva gli assalti della cavalleria contro la cavalleria nemica, specialmente se questa era leggera e non corazzata. Inoltre, è praticamente certo che era stata ideata una tattica la quale in pratica permetteva alla cavalleria di sconfiggere anche corpi di fanteria bel organizzati: si trattava dell’uso combinato della cavalleria pesante (armata di lance) e di quella leggera (composta da arcieri a cavallo). Questo metodo fu usato dai Parti, che con il loro esercito di cavalieri distrussero le sette legioni che Crasso… Tale tattica, basata sulla classica combinazione di armi da lancio e forze d’urto, prevedeva l’impiego di un’enorme quantità di frecce scagliate dagli arcieri a cavallo contro le file dei Romani, mentre i lancieri li costringevano a rimanere in file serrate, minacciando di sferrare una carica (o un vero e proprio attacco), ed esponendoli così più facilmente al lancio delle frecce”. E. N. Luttwak, La grande strategia dell’impero romano, p.84-85.
 
Surena geniale, rivoluzionario ma non più fortunato del suo nemico romano perché finisce ucciso dal suo re per l’invidia suscitata, dopo aver allestito “una parodia di trionfo, facendo sfilare per le vie di Seleucia un prigioniero somigliante a Crasso, con una veste regale femminile, ammaestrato a quanti lo chiamavano Crasso e generale; davanti a lui marciavano i trombettieri e alcuni dei littori a cavallo di cammelli: ai fasci erano appese delle borse e alle asce erano legate le teste dei romani, mozzate di recente”. A. Frediani, I grandi generali di Roma antica, p.274.
 
Crasso invece è uno degli uomini più ricchi e potenti di Roma tra proprietà terriere, speculazioni, miniere e schiavi. Un uomo capace di accumulare denaro in ogni modo: “…Era stato favorito , nell’ereditare il patrimonio familiare, dalla uccisone dei parenti più stretti per mano dei sicari di Mario.
Inoltre aveva sposato la vedova di suo fratello, soprattutto per evitare che l’asse dei beni si disperdesse tra molti aventi diritto… Questo calcolo… non gli sarebbe bastato per fare il salto di qualità a cui aspirava se non fosse stato integrato dai proventi delle spoliazioni con cui si è distinto durante la dittatura di Silla, con la conseguente appendice delle proscrizioni… Con la sua avidità è riuscito a scandalizzare perfino il suo capo che quanto a cinismo predatorio vanta un livello a dir poco superlativo se non imbattibile… Aveva capito che le costruzioni edili, in una città in cui la popolazione cresce in modo esponenziale, per via degli immigrati provenienti, in cerca di fortuna, da ogni paese del Mediterraneo, potevano diventare autentiche miniere d’oro… A Crasso, quando arrivava in ufficio, il primo documento che i suoi impiegati sottoponevano era il mattinale degli incendi scoppiati in città durate la notte. Su queste informazioni impostava la sua strategia di accaparramento e di espansione. A Roma, si sa, gli incendi e i crolli di case di ogni tipo non fanno neanche più notizia. Crasso è stato uno dei maggiori usufruttuari di questi continui disastri e dei drammi relativi”. G. Antonelli, Cit., pp.35-37.
 
Non gli basta. Militarmente cresciuto, appunto, sotto l’ala di Silla ma con all’attivo solo la sconfitta di Spartaco nella rivolta degli schiavi non ritenuta gloriosissima, è roso da un ambizione politica cieca che lo distruggerà:
“La sua maggiore sfortuna fu quella di confrontarsi con Cesare e Pompeo: dove gli altri due triumviri si distinguevano per genialità e carisma, lui si comportava con la consueta arroganza dell’aristocratico. Carenza che gli impedì di creare quell’empatia necessaria per assicurare la necessaria coesione di un grande esercito”. G. Traina, Cit., pag.14.
 
Stufo di sentirsi l’anello debole del triumvirato che governa Roma dal 60 a.C., messo in piedi con gli altri due già grandi condottieri, pensa di farsi strada ad Oriente dove prevede grandi prospettive. In una mera logica espansionista possiamo ravvisare valide ragioni strategiche per giustificare una guerra contro i Parti: il controllo della Terra tra i due Fiumi da cui aprirsi le vie commerciali verso l’India e la Cina. “Immaginava già di spingersi fino all’Estremo Oriente, nelle terre degli indiani e dei battriani, ovvero ai confini di quelle immense regioni che solo il grande Alessandro era riuscito a conquistare”. G. Traina, Cit., p.17.
 
La mano destra e la testa mozzata, “abbeverata” d’oro fuso per saziarne la sete di ricchezza finiranno ad ornare un banchetto di re Orode come regalo di Surena.
 
CRONACA SUL “VIETNAM” DEI ROMANI TRA ARCIERI E CAVALLERIA
Plutarco si è occupato di tramandarci le sue cronache di guerra, crude ed efficaci anche senza radio o Tv: “Raccolti in un piccolo spazio, venivano colpiti e cadevano gli uni sugli altri, agonizzando lentamente, straziati da un dolore insopportabile rotolavano sui dardi che si spezzavano dentro le ferite. Nello sforzo di estrarre le punte, penetrate nelle vene e nei nervi e ripiegate come un amo, essi finivano per distruggersi e dilaniarsi da sé. Così tanti morivano, mentre i superstiti erano allo stremo delle forze…”. E così anche Cassio Dione: “Piombando in massa sui romani da ogni parte, ne ferivano mortalmente parecchi, e parecchi impossibilitavano a combattere, e nessuno poteva trovar pace. Infatti i dardi sfrecciavano sugli occhi, sulle mani e su tutto il resto del corpo; trapassavano le armature, li lasciavano senza protezione e, continuando a ferirli, li costringevano a esporsi. Se qualcuno si difendeva dal dardo o cercava di estrarlo, un altro lo colpiva e una ferita si aggiungeva all’altra. Che si muovessero o restassero impassibili, non avevano via di scampo, poiché entrambe le soluzioni erano insicure e portavano alla morte”.
 
Si verifica uno scontro con tattiche militari che rinnovano le reciproche tradizioni: “I legionari romani equipaggiati con il gladio e il giavellotto, ma queste armi potevano ben poco contro i rapidi movimenti degli arcieri a cavallo e le pesanti corazze… Certo, i Romani disponevano di un’efficacissima tattica, la formazione a testuggine, che permetteva anche a grandi unità di formare un quadrato, reso impenetrabile da una barriera formata dagli scudi ma questa tattica appesantiva il movimento della legione, riducendone quindi le potenzialità offensive… Provocare, ferire dalla distanza, eludere l’urto frontale, provocare di nuovo, attirare lontano dalle proprie basi il nemico in uno spazio vasto e ostile, inadatto alla concentrazione dello sforzo, a quel parossismo di violenza risolutiva che è il combattimento in ordine chiuso: questi sono i principi cui si devono uniformare la strategia e la tattica dell’arciere; se gestiti in maniera appropriata, sono potenzialmente letali per le armi pesanti tipiche dell’Occidente”. G. Traina, Cit., pp.69-72.
 
Anche la guerra è un momento di studio e analisi, una grande vittoria o una grande sconfitta possono aprire ad evoluzioni rivoluzionarie nelle tecniche militari: “In questa occasione, le armi di corta portata dei Romani e il loro sistema di ammassamento soggiacquero per la prima volta alle armi di lunga portata ed al sistema di spiegare le truppe in battaglia, cominciò quella rivoluzione militare, che poi con l’introduzione dell’arma da fuoco, ebbe il suo pieno compimento… Le legioni che, nonostante il suggerimento di ufficiali avveduti di condurle contro il nemico quanto più possibile spiegate, erano state ordinate in un quadrato composto di dodici coorti su ogni lato, furono subito sopraffatte e tempestate dalle terribili frecce, che, lanciate anche a caso, colpivano le loro vittime, e alle quali i soldati romani non potevano assolutamente rispondere in nessun modo”. T. Mommsen, Storia di Roma, Vol. VIII, p.16.
 
I Romani si espongono così agli avversari come un bersaglio mobile senza possibilità di fuga o riparo: “Giunsero in vista del nemico, che palesò solo alcuni contingenti, nascondendo il grosso dietro le alture e coprendo il luccichio delle armi al sole con mantelli e pellami… Le speranze che quella interminabile pioggia di frecce si esaurisse si spensero di fronte alla notizia che un’intera carovana di cammelli, con riserve immense di dardi, era disposta dietro le dune per rifornire gli arcieri a cavallo”. A. Frediani, Cit., p.269.
 
UNA PIOGGIA DI FRECCE CHE OSCURA IL SOLE
Il disastro di Carre in lande desolate e sconfinate dipende da una tattica che prevede l’uso combinato di arcieri e cavalleria. La pressione dei primi blocca il margine di manovra delle legioni, che ammassandosi nella ricerca istintiva di un riparo favoriscono l’attacco irresistibile e micidiale dei cavalieri corazzati. Già Seneca evidenzia che “un bambino nato in Partia tenderà subito l’arco”, così come si impratichiscono cavalcando le pecore.
 
Ne deriva che i guerrieri mediterranei non conoscono a sufficienza l’arco composto che può scoccare frecce ad una distanza almeno doppia rispetto a quelli ellenistici e romani. Ne parla anche Plinio il Vecchio quando ricorda che: “I popoli d’Oriente decidono le guerre con le canne. Applicandovi delle penne, con esse arrecano una rapida morte; vi aggiungono punte uncinate mortali, che non possono estrarre e si spezzano dentro la ferita, come un doppio strale. Con queste armi possono oscurare il sole”. Ben diversa fino ad allora è l’esperienza dei Romani la cui aura di invincibilità “era determinata dalla grande esperienza accumulata nei teatri operativi di tutto il Mediterraneo: dalla Spagna all’Africa, dal Balcani all’Asia Minore, la legione sembrava destinata ad avere la meglio su qualsiasi terreno… Come già la falange ellenistica, si serviva delle truppe montate: il nerbo dell’esercito era la fanteria pesante legionaria, mentre i cavalieri rappresentavano un complemento utile ma non decisivo”. G. Traina, Cit., p.23.
 
Carre è dunque un completo capovolgimento dei principali sistemi tecnici e tattici con cui fino ad allora i Romani hanno piegato ogni nemico. Infatti, si tramuta anche in guerra psicologica; mentre con le legioni si è sempre affidato alla vista di enormi schieramenti il compito di influire sul morale dei combattenti, i Parti puntano sull’udito: “A Carre prevalsero invece i tamburi di guerra… Impeto, esaltazione, canto animalesco e ululati, furore, ebbrezza: per non parlare dello strumento sciamanico per eccellenza, il tamburo e i sonagli adoperati nella guerriglia psicologica che tanta parte ebbe nella sconfitta dell’esercito di Crasso… Anziché attaccare subito la legione si decise di continuare a stancare il nemico con gli arcieri leggeri, e di ordinare la carica al momento opportuno”. G. Traina, Cit., pp.74-81.
 
Insomma una battaglia che si esplica con un modo di combattere insolito tra eserciti totalmente diversi per armamenti e formazione. Come si potrebbe sintetizzare raccogliendo qui e là analisi di studiosi moderni, è possibile affermare che “il modo di combattere degli uomini di Surena ricorda una banda di ragazzi fuorviati, senza fede né legge, che praticavano una guerra di folgoranti colpi di mano, logorando la preda fino alla morte, per perdersi subito dopo nell’immensità delle distese desertiche”. Se ne può trarre che “un’idea diffusa degli storici è che, dopo Carre, il modo di combattere dei romani sia cambiato. Di certo si dotarono di armi più efficaci, migliorando la qualità delle corazze, e dei giavellotti… I generali appresero una grande lezione di tattica, che misero in pratica per difendersi dai parti, e probabilmente anche per ispirarsene”. G. Traina, Cit., p.102.
 
DUE IMPERI UN SOLO IMPERO
Carre come battuta d’arresto per Roma, tanto che lo scenario storico presenterà effettivamente due blocchi separati dall’Eufrate. In definitiva due aree egemoniche, due imperi: il Mediterraneo romano e l’Asia partica (Iran, Iraq, Armenia, parte del Caucaso ed Asia centrale). Come riporta Strabone: “I Parti oggi dominano un territorio così grande, e così tanti popoli, da rivaleggiare in qualche modo con i romani per la grandezza del dominio. Causa di questo successo sono il loro stile di vita e i costumi: certo, essi hanno molti elementi comuni con i barbari e con gli sciti, e tuttavia presentano quanto occorre per dominare e per vincere in guerra”.
Una suddivisione del potere sul mondo conosciuto che darà vita ad almeno tre secoli di conflitti. Toccherà alla Realpolitik di Ottaviano Augusto, intervenendo in una mediazione dinastica degli avversari, recuperare nel 20 a.C. le insegne rimaste in mano nemica. Così non si lava solo l’onta di Carre, ma si avvia la formale rinuncia all’eterna conquista paradossalmente perché Roma sia eterna. Solo Traiano nel 116 d.C., in una nuova svolta imperialista della politica romana, riuscirà a sbaragliare i parti di re Osroe e sedersi sul trono d’oro nella Capitale Ctesifonte.
Nonostante questo preferisce fermarsi e dedicarsi all’organizzazione delle nuove province: “Il conquistatore fu tentato di imitare Alessandro, inseguendo l’avversario come il macedone aveva inseguito Dario; ma fino ad allora era andato tutto bene, e mettere alla prova la resistenza dell’esercito in una dura marcia attraverso gli altipiani iranici era una prospettiva assai poco allettante. Quanto appariva opportuno per confermare il prestigio di Roma e la sua fama di condottiero era già stato attuato”. A. Frediani, Cit., p.455.
 
Da quel momento il regno partico si avvia verso la scomparsa intorno al 224 d.C. a causa di distruttivi conflitti feudali. Roma no, continua con le sue profonde evoluzioni ad influenzare ogni pagina di storia successiva nell’accavallarsi del tempo. Sopravvive perché la struttura statale diluisce in qualche modo l’ambizione del singolo, con il risultato che l’Impero si occupa di gestire il potere e il dominio contro l’avventurismo fine a se stesso. Nessun condottiero eguaglierà Alessandro, ma in questo ricorrente richiamo Tito Livio sottolinea “l’assurdità di un raffronto tra le gesta di un singolo giovane re conquistatore e quelle di un popolo che fa la guerra da ben ottocento anni… I macedoni avevano un solo Alessandro, che non soltanto si esponeva a molteplici pericoli ma lo faceva di sua spontanea volontà. Invece molti erano i romani che potevano emularlo per gloria e imprese. Ciascuno di essi, a seconda del proprio destino, avrebbe potuto vivere o morire senza che per questo la repubblica corresse alcun rischio”. Insomma mentre i regni ellenistici si sfasciano dopo una sola disfatta, Roma continua a vivere anche sul cadavere di un Crasso.