19 aprile 2012

TORQUEMADA, LA LEGGENDA NERA DELL’INQUISIZIONE AI "MARRANI"

Intolleranza religiosa, antisemitismo e avidità portano il frate domenicano ad annientare il giudaismo in Spagna. Storia di fanatismo, delazioni, torture e morte. Ma l’Inquisizione è solo questo? Solo persecuzione o strumento di tutela della società “politica” dominante nella complicità tra Papato e Impero?

UN SADICO TRA FEDE E MORTE
“Quando appariva il carro della morte di Torquemada, le porte delle città si spalancavano, le risorse venivano poste a sua disposizione e i magistrati gli giuravano devozione”. S. Klein, I Personaggi più malvagi della storia, p.123.

La storia della Chiesa, sin dal 1200, ha lasciato all’umanità il sistema dell’Inquisizione, istituzione ecclesiastica per la difesa ad ogni costo dell’Ortodossia cattolica; l’Inquisizione ha lasciato il ramo spagnolo con i suoi metodi e la sua influenza su buona parte della cristianità spargendosi anche sul Portogallo, le Americhe e l’Italia; quella spagnola ha lasciato Tomás de Torquemada, gran persecutore di ebrei e falsi convertiti: “Responsabile dell’imprigionamento, della tortura e della morte di migliaia di spagnoli innocenti. Conosciuto come la Leggenda nera, egli sparse il terrore in tutto il Paese… sviluppando la sua istituzione con zelo implacabile e spietato fanatismo. Vestito dell’austera tonaca di frate domenicano, questo sadico emaciato e dagli occhi infossati riversò il suo odio sugli ebrei e sugli eretici costringendo ben 300.000 persone a lasciare la Spagna e distruggendo per sempre le loro vite”. S. Klein, Cit., p.117.

Il religioso (Valladolid 1420-Ávila 1498), forte del suo ascendente di confessore della futura regina di Spagna Isabella di Castiglia, otterrà nel febbraio 1482 la nomina di Inquisitore generale di Spagna passandone alla storia come “l’incarnazione più spaventosa”. “Lo scopo originario fu quello di eliminare i falsi convertiti fra ebrei e mori – marrani e moriscos – ma presto si trasformò in un potente mezzo di controllo sulla professione del cristianesimo nonché sulla fedeltà alla Chiesa e alla corona. Il grande inquisitore che ne era a capo, assistito da un consiglio di sua nomina e approvato dal re, si servì per ottenere risultati convincenti di due armi: la tortura e la delazione. Il primo grande inquisitore noto per la sua raffinata crudeltà fu Tommaso di Torquemada”. L. Gatto, La grande storia del Medioevo – tra la spada e la fede, p.647.

CONVERTIRSI NON BASTA… BRUCIARE LE OSSA
Intorno alla metà del XIV secolo il Regno di Castiglia è dilaniato da una feroce guerra civile e gli appartenenti alla comunità ebraica vengono presi di mira come capri espiatori e braccati con violenti pogrom (sommosse antisemite) o costretti a convertirsi al cristianesimo divenendo noti col nome di conversos anche se resta la convinzione del mantenimento in segreto della loro fede: “Essi suscitavano sospetto e diffidenza, e non pochi pensavano di avere per vicini più ebrei che cristiani. Nonostante i pregiudizi, molti ebrei ottennero alte cariche nell’amministrazione reale, nella burocrazia civile e perfino nella Chiesa… Essi erano tra le persone più colte della Spagna, e l’importanza raggiunta, il successo e la ricchezza provocavano invidie e risentimenti. Ad esacerbare l’ostilità dell’inquisizione sarebbe stata anche la loro agiatezza”. S. Klein, Cit., p.118.

Ci penserà Torquemada a risolvere la questione. Ossessionato dalla purezza della stirpe prepara Limpieza de Sangre, un apposito documento con le regole contro il sangue ebraico: interdizione dai pubblici uffici o denuncia come eretico.
Da qui alla morte il passo è breve. Nei tre anni successivi alla nomina di questo Hitler del XV secolo vengono istituiti tribunali dell’Inquisizione nelle più importanti città spagnole. La loro attività porta a lamentele di numerosi vescovi e addirittura ad una Bolla papale di indignazione: “Veri e fedeli cristiani, in base alla testimonianza di nemici, rivali, schiavi, sono, senza alcuna legittima giustificazione, gettati in prigioni secolari, torturati e condannati… spogliati dei loro beni e proprietà, e consegnati al braccio secolare per essere giustiziati”.
Ma la forte autonomia di cui gode la corona spagnola consente a Torquemada di proseguire. E si va avanti a pieno regime tanto che in Spagna, come altrove, la gente approfitta dell’Inquisizione per saldare vecchi conti, vendicarsi di vicini e parenti, ed eliminare rivali in affari. Tutti potevano denunciare tutti: “Le denunce ispirate dall’odio erano la regola, più che l’eccezione. Tra il 1480 e il 1490, in Castiglia, in seguito a false testimonianze vennero mandate al rogo più di 1500 persone e, molte di loro non seppero mai chi fossero i loro accusatori. I nomi dei testimoni erano tenuti segreti, e dalle loro dichiarazioni venivano eliminati tutti gli indizi che potessero tradirne l’identità… a volte neanche la morte bastava. Quando si pensava che il penitente non avesse espiato a sufficienza, le sue ossa venivano dissotterrate e bruciate, e la famiglia doveva accollarsi penitenze e debiti”. S. Klein, Cit., pp.124-25.

Da inquisito ad inquisito, di tortura in tortura, di rogo in rogo, si arriva all’esilio definitivo degli ebrei di Spagna deciso a marzo del 1492 da Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona, reali della nazione ormai unificata. Torquemada ha coronato il suo sogno e può morire in “pace” dopo aver annientato il giudaismo nel suo Paese.





TORTURA E IPOCRISIA TRA TEORIA E PRATICA
Prima ipocrisia: se il torturato muore sotto tortura è colpa sua. “In considerazione dei sospetti avvalorati dalle prove, egli viene condannato ad essere torturato per il tempo che sarà giudicato necessario, in modo da costringerlo a dire la verità. Se durante la tortura dovesse morire o subire emorragie o mutilazioni, ciò non dovrà essere attribuito all’inquisitore, ma a lui stesso, per non aver detto la verità”. S. Klein, Cit., p.117.
 
Seconda ipocrisia: niente spargimento di sangue. “Gli inquisitori erano autorizzati dal papa a praticare la tortura, preferibilmente senza spargimento di sangue, e tale ipocrisia favorì la nascita di nuovi strumenti, in particolare la ruota, lo schiacciapollici e altri congegni che solo casualmente provocavano la fuoriuscita di sangue. Le tenaglie e simili attrezzi dovevano essere arroventati al calor bianco, così che il metallo incandescente cauterizzasse la carne quando veniva lacerata”. S. Klein, Cit., pp.125.

-         La Toca o tortura dell’acqua: la vittima costretta a bere a forza;
-         il Potro con l’accusato legato a una ruota dentata con corde che potevano essere strette sempre di più;
-         la Garrucha con l’eretico appeso per i polsi a una carrucola che pendeva dal soffitto e pesi legati ai piedi: tirando lentamente la corda per acuire al massimo il dolore, la vittima viene lasciata ricadere di colpo disarticolando in tal modo le membra.


Terza ipocrisia: vietato eseguire sentenze di morte. “quando si trattava di comminare le sentenze di morte, l’ipocrisia clericale si rivela di nuovo. Gli inquisitori non potevano farla eseguire direttamente, per non apparire poco cristiani, ed erano obbligati a consegnare l’eretico alle autorità secolari, che avrebbero fatto il lavoro sporco al posto loro. Per assicurare il massimo numero di spettatori, le esecuzioni avevano luogo nei giorni di festa. Il condannato veniva legato a una catasta di legna secca, collocata più in alto della folla in modo da garantire una buona visuale. Dopo la morte, il corpo era fatto a pezzi, le ossa frantumate e il tutto gettato tra le fiamme di un altro rogo”. S. Klein, Cit., pp.126.

CONTROSTORIA MINIMA DELL’INQUISIZIONE, SOLO PERSECUZIONE O VISIONE COMUNE TRA PAPATO E IMPERO?
Tutto nasce dall’intolleranza che ha un’origine quando “di fatti dagli Ebrei in prima e quindi dai Cristiani si oppose all’antico politeismo il concetto di un dio unico ed universale, sorse una nuova forma di esclusivismo religioso, contraria non meno nella sua base e nei suoi effetti all’antica. Gli dei degli altri popoli furono detti falsi e decaduti… ne conseguì non solamente un inestinguibile spirito di proselitismo, ma ancora il principio, che non potesse salvarsi se non chi adorava il vero dio, cioè il principio di una intolleranza assoluta”. F. Ruffini, La libertà religiosa, p.16.

È quindi con il diffondersi del Cristianesimo nell’Impero romano che si afferma una concezione religiosa fondamentalmente diversa, non solo col tempo istituzione di Stato ma rapporto intimo ed immediato della coscienza individuale con la divinità: “I cristiani avevano ereditato dal Giudaesimo l’idea monoteistica, e cioè l’idea di un Dio unico per tutti gli uomini e innanzi a cui tutti gli uomini sono uguali… Ma poiché l’unico Dio è padre di tutti quanti gli uomini, quel rapporto intimo ed immediato è e deve essere in tutti gli uomini senza distinzione di luoghi e tempi… Se unica è la religione vera, bisogna adoperarsi perché, da una parte, le religioni false siano disperse e sterminate, e, da un’altra parte, perché tutti gli uomini siano condotti alla conoscenza del vero Dio, e ciò al fine di farli partecipi dell’eterna salvezza”. F. Ruffini, Relazioni tra Stato e Chiesa, pp.33-34.

La lotta all’eretico, all’infedele, al giudeo, comunque, non è ascrivibile alla sola dimensione ecclesiastica: “Papato e Impero, i due grandi lottatori dell’agone medioevale, sostarono tratti dall’immane contesa per picchiare concordi sui nemici della fede… L’intolleranza religiosa cristiana si rimette ora in moto con tutto il suo nativo assolutismo, e l’intolleranza civile non solamente le viene dietro pronta ad ogni cenno, ma a volte le passa innanzi e la supera”. F. Ruffini, Cit., pp.40-41.

Quindi bisogna inquadrare l’Inquisizione nei secoli in cui operò: “La religione aveva la stessa importanza vitale che per l’uomo d’oggi l’ideologia politica; o per meglio dire, religione e politica erano allora due facce della stessa medaglia, poiché sia nei paesi protestanti sia in quelli cattolici la struttura sociale si reggeva su basi puramente religiose”. G. Henningsen, L’avvocato delle streghe, p.28.

Ed ecco il Papato che con Lucio III, nel Concilio di Verona del 1184, tira fuori l’Inquisizione, destinata a lottare per mantenere la purezza della fede. Ma nello stesso momento vengono stilati gli accordi con l’Impero, con Federico Barbarossa: “Si conviene che al bando della Chiesa debba accompagnarsi per gli eretici il bando dell’Impero. Vale a dire, l’eretico è messo fuori non soltanto dalle leggi ecclesiastiche, ma da quelle civili, e non ne gode più la protezione; così che la sua persona e le sue cose possono essere impunemente manomesse da chiunque, e nessuno può più avere commercio con lui, non i genitori, non il consorte, non i figli”. F. Ruffini, Cit., p.41.

Poi dal 1478 nasce l’Inquisizione spagnola, a partire dalla Castiglia, che assume una posizione peculiare non essendo sottoposta come in altri paesi alla giurisdizione diretta di Roma: L’Inquisitore generale viene designato dal re e convalidato dal papa.
Da quel momento nasce uno stato nello stato: “Il Santo Uffizio spagnolo aveva il proprio ministero: il Consiglio della Suprema e Generale Inquisizione; o più semplicemente la Suprema. Disponeva di propri tribunali, proprie prigioni e proprie case di penitenza… Disponeva anche di un suo servizio di informazioni, i cui agenti principali, i commissari di distretto, erano in maggioranza parroci… La chiave del potere del Santo Uffizio risiedeva nel voto segreto praticato in tutti i rami della sua attività… Nessuno, neppure il re, aveva il diritto di tentare di conoscere ciò che l’Inquisizione non voleva divulgare… Non era nemmeno costretta a rivelare la permanenza nelle sue carceri segrete di questa o quella persona, e meno ancora se era viva o morta”. G. Henningsen, Cit., pp.29-30.

Se da un lato appare incomprensibile un tale sistema ruotante attorno ad obiettivi religiosi, dall’altro non si deve immaginare un universo anarchico votato alla distruzione dell’umanità. Un contrappeso molto potente alla caccia all’infedele è l’autocontrollo: la Suprema veglia sulla stretta esecuzione delle sue leggi e dei suoi regolamenti con ispezioni molto incisive, accogliendo lamentele su abusi commessi, controllando i tribunali e applicando agli agenti gli stessi metodi utilizzati contro gli eretici. La filosofia di fondo è che: “il Santo Uffizio non intende sterminare gli eretici, ma di trasformarli in buoni cattolici. Solo coloro che ricusavano di cooperare a simile riforma mentale – i protervi, impenitenti negatori, come venivano chiamati nel gergo inquisitoriale – venivano condannati al rogo. Scopo primario del processo era risvegliare nel reo il senso di colpa, che lo avrebbe indotto a rinunciare ai suoi errori”. G. Henningsen, Cit., p.31.

La stessa tortura, col via libera di papa Innocenzo IV nel 1252, è un mezzo per ottenere la confessione che l’Inquisizione usa solo quando si ritiene che l’accusato non dica tutta la verità. Ma risulta che dopo i tormenti il carnefice deve curare la vittima dalle piaghe inflitte: “L’opinione popolare che le sale di tortura siano state teatri di tormenti incredibilmente crudeli e raffinati, di metodi studiati apposta per produrre dolore, e di una perseveranza poco comune nell’impegno di strappare confessioni ai rei, si doveva a malintesi provocati da scrittori sensazionalisti, che si approfittavano della credulità popolare. Il sistema era crudele nella teoria e nella pratica, ma il Santo Uffizio non era responsabile della sua istituzione, e di solito si mostrava assai meno feroce nel praticarlo delle autorità civili. L’Inquisizione si limitava all’uso di pochi metodi riconosciuti”. G. Henningsen, Cit., p.146.

Pur tuttavia ciò che gli uomini hanno compiuto in nome di Dio è paradossale e mostruoso per la società dei nostri tempi. Ma è ancor più tragicamente incredibile registrare, ogni giorno, come la storia non abbia insegnato nulla agli inquisitori di oggi sparsi per il mondo. Hanno solo cambiato riferimento divino e reso planetario lo spargimento di sangue.

13 aprile 2012

MARSHALL, TRA BURRO E CANNONI UN PIANO PER L’OCCIDENTE

1945, l’Europa è devastata dal conflitto e su essa gravano due piaghe diaboliche: la fame e il comunismo. Gli Stati Uniti decidono di intervenire ancora, partono dai viveri, arrivano alle armi e avviano un lento processo di unità politica ed economica. Il Vecchio Mondo rinasce ma è ormai colonia tra i signori della guerra fredda

EUROPA ANNO ZERO
“Venti milioni di persone vagavano disperate e senza casa… vagavano senza una meta, verso Est e verso Ovest, verso Nord e verso Sud, in tutto il continente. Ufficialmente chiamati profughi di guerra, questi rifugiati erano una schiera immensa: tedeschi che si riversavano dai paesi slavi verso Est e verso il Reich devastato, polacchi e cechi che li seguivano da vicino nelle città distrutte… ungheresi che marciavano trascinandosi penosamente per la pianura della Pannonia.
In tutta Europa la libertà per cui tante nazioni avevano combattuto era tutt’altro che evidente mentre nell’Est, in particolare, erano ricomparse le condizioni del periodo della prima guerra mondiale: una dittatura dopo l’altra. Il futuro non era mai sembrato tanto lontano”. D. W. Ellwood, L’Europa ricostruita, p.48.

Questa è la condizione dell’Europa all’indomani della Seconda Guerra Mondiale nel 1945, una catastrofe economica e umanitaria su cui già si giocano i destini del mondo: la politica dei “blocchi”, Est e Ovest, Stati Uniti e Unione Sovietica, democrazie liberali e regimi comunisti. Bisogna salvare il continente, o quella parte Occidentale ancora non in mano a Mosca che risucchia un territorio dopo l’altro con la sua promessa sociale salvifica facendo breccia nella più cupa disperazione dei popoli annientati dalle conseguenze del conflitto.

Sarà George Catlett Marshall (1880-1959), dopo le fatiche della guerra come capo di Stato maggiore dell’esercito americano e poi dal 1947 come segretario di Stato, a studiare e realizzare un piano di ricostruzione europea, un programma di aiuti che non è in sé una mera distribuzione di viveri e risorse ma un’idea d’Europa politica ed economica: “All’Europa distrutta ed insidiata dalla minaccia sovietica gli Stati Uniti offrivano, insieme al denaro, la stessa terapia che era all’origine del successo della loro storia nazionale: l’unità. L’America avrebbe aiutato tanto più generosamente i paesi europei quanto più essi si fossero dimostrati capaci di seppellire le loro divergenze, sommare i loro sforzi, integrare le loro economie”. S. Romano, Guida alla politica estera italiana, p.51.


CONTRO I ROSSI LA TEORIA DELLA CRESCITA
Alla fine della guerra si intravede benissimo l’inizio della divisione dell’Europa da una dichiarazione di Stalin: “Questa guerra non è come in passato; chiunque occupa un territorio vi impone il proprio sistema sociale. Ognuno impone il proprio sistema, nella misura in cui il suo esercito ha il potere di farlo. Non può esser altrimenti”. D. W. Ellwood, Cit., p.16.

“Italia e Francia erano potenze in ombra, la Germania aveva perso aveva perso la sua unità politica e territoriale, la Gran Bretagna non era, più, politicamente al centro del mondo, i paesi dell’Est europeo erano spariti nell’impero russo. Questo era lo sconfortante mosaico dell’Europa al suo tramonto. Ma era proprio in questo scenario che stavano le ragioni per voltare pagina, per intraprendere qualcosa di nuovo che avrebbe potuto salvarla”. G. Giordano, Carlo Sforza: la politica 1922-1952, p.239.


Di fronte a questa prospettiva, gli Stati Uniti sono più che mai convinti della necessità di impiegare un misto di elementi ideali e pratici per affermare la loro influenza geopolitica sui nuovi equilibri. Ideali: puntando a garantire ad ogni nazione il diritto di scegliere democraticamente il loro futuro. Pratici: battezzando il concetto di crescita quale riferimento nella competizione con il sistema sovietico. Questo è il passaggio fondamentale alla base dello stesso Piano Marshall.
La premessa che viene determinandosi negli ambienti oltreoceano per sistemare la “questione europea” prima di esserne travolti e ritrovarsi le bandiere rosse sotto casa, è tenere presente che la povertà delle masse va di pari passo con il totalitarismo e la guerra, allora bisogna proiettare nel mondo il modello americano. Ma soprattutto bisogna avviare un processo di modernizzazione, ricostruendo l’industria e i commerci per approdare alla sicurezza collettiva, al libero scambio e ad una maggiore prosperità degli individui.

Proprio di ritorno da una conferenza stampa a Mosca in Marshall si rafforza la convinzione che Stalin vede nelle “enormi difficoltà economiche in cui si dibatteva l’Europa l’arma vincente per la sua politica espansionistica. La miseria imperversava in gran parte del continente europeo. In Francia e in Italia, i cui governi si erano liberati della scomoda presenza dei comunisti, con ciò schierandosi più marcatamente nel campo occidentale, l’amarezza era profonda. Bisognava dare ad essi, e non solo ad essi, una risposta efficace”. G. Giordano, Storia della politica internazionale 1870-1992, p.291.

E la risposta comincia a prendere forma a giugno del 1947 proprio dalle parole del generale in un discorso ad Harvard: “La nostra politica non è diretta contro un paese o una dottrina ma contro la fame, la povertà, la disperazione e il caos… Il compito degli Stati Uniti dovrebbe consistere in un’assistenza amichevole per l’elaborazione di un programma europeo e, più tardi, in un appoggio a tale programma, nella misura in cui sarà pratico farlo”.

NEMMENO I CHIODI PER LE BARE
Un’ambizione certamente smisurata considerata la situazione del vecchio continente leggendola dalle parole del vice Primo ministro britannico Clemen Attlee: “A poco a poco si va diffondendo la consapevolezza che la condizione dell’Europa è indicibilmente grave, e che un nuovo atteggiamento verso i suoi problemi è assolutamente necessario”.
Molto più cruda una cronaca del New York Times: “Non si è mai vista una tale distruzione, una tale disintegrazione della struttura della vita. I liberati non possono essere nutriti o rimessi sulla via della ripresa. L’aumento vertiginoso dell’indice di mortalità e della percentuale dei casi di tubercolosi in Francia durante il primo inverno della liberazione è tipico. In Italia gli aiuti mandati dagli Stati Uniti, benché considerevoli, sono solo una goccia in un oceano di necessità. In Belgio la situazione è politicamente critica, in Olanda è anche peggiore”.
Insomma appare più che evidente che servono, ma ancora non esistono, piani efficaci per affrontare un dramma così vasto; soprattutto per le popolazioni prive dei beni di primissima necessità. Perfino dei chiodi per chiudere le bare!!!
L’impressione che i commentatori del tempo diffondono maggiormente è che nei primi anni successivi alla guerra, le principali preoccupazioni delle popolazioni dell’Europa Occidentale sono il comunismo e la fame: e la prima si teme possa essere conseguenza della seconda. Tanto emerge dal Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite nel 1946: “In Europa 100 milioni di persone vivevano con di 1.500 calorie al giorno o meno, al livello cioè in cui la salute subisce gravi danni e la capacità lavorativa viene rapidamente ridotta o distrutta. Altri 40 milioni di persone vivevano a un livello leggermente meno pericoloso, tra le 1.500 e le 2.000 calorie. Queste popolazioni erano anche disperatamente a corto di alloggi, attrezzature domestiche, utensili, vestiti e scarpe”.
Solo in Francia, ad esempio, le razioni alimentari ufficiali bastano a descrivere la situazione:
-         mezzo chilo di grasso al mese;
-         2 etti di carne alla settimana;
-         mezzo chilo di zucchero al mese,
-         2 chili di patate al mese;
-         1 etto e mezzo di formaggio;
-         latte solo ai bambini;
-         50 chili di carbone per tutto l’inverno.

In breve, miglioramento del tenore di vita e unificazione europea devono essere la barriera difensiva dai rischi di influenza sovietica sul resto d’Europa, e nel medio periodo un argine all’eterna guerra civile del continente dissanguato da secoli di continui conflitti.
Proprio nel corso del 1946 “vennero improvvisati programmi di aiuti per impedire che accadesse il peggio. Ma nessuno era soddisfatto dei risultati, e da tutte le parti comparvero pressioni perché gli Stati Uniti adottassero un modo diverso di affrontare il problema, una nuova politica che collegasse tutti i fattori economici in un sistema transatlantico di collaborazione pratica che sostituisse le utopie fallite o non realizzate del periodo della guerra”. D. W. Ellwood, Cit., p.53.

Quale deve essere in questa prospettiva la politica degli Stati Uniti?

UNA CROCIATA IDEOLOGICA
Una prima idea arriva all’inizio del 1947 dal segretario di Stato statunitense John Foster Dulles che traccia un’elaborazione del futuro europeo basato sulla resistenza politica all’espansionismo sovietico, federazione secondo il modello americano, unificazione economica.
La svolta avverrà tra la primavera e l’estate del 1947 con l’esposizione della Dottrina Truman e conseguentemente con l’avvio del Piano Marshall. Il Presidente americano Harry Truman nel suo celebre discorso al Congresso americano, 12 marzo 1947, dichiara di essere deciso ad “aiutare i popoli liberi a mantenere le loro libere istituzioni e la loro integrità nazionale di fronte ai movimenti aggressivi che cercano di imporre loro un regime totalitario… Con questo si vuole solo riconoscere con franchezza che i regimi totalitari imposti ai popoli liberi attraverso un’aggressione diretta o indiretta minano le fondamenta della pace internazionale e quindi la sicurezza degli Stati Uniti”.
È la svolta, una crociata ideologica: “Gli Stati Uniti avrebbero soprattutto voluto dimostrare la loro innata fiducia in ciò che essi rappresentavano: un sistema politico ed economico che non soltanto aveva prodotto il tenore di vita più alto mai conosciuto dal mondo, ma era anche in grado di allargarsi e di migliorare per soddisfare i moderni bisogni e desideri, e capace di proiettare il proprio esempio, perché consapevole che ciò che poteva dare, diversamente dal caso dell’Unione Sovietica, era appunto ciò che l’Europa desiderava”. D. W. Ellwood, Cit, pp.106-107.

Solo altruismo e idealismo? No. L’obiettivo è ricostruire un’economia mondiale funzionante, stabilizzare le nazioni democratiche e combattere la propaganda comunista e socialista che minaccia il modo di vita americano. Oltretutto gli Stati Uniti non possono permettersi un crollo europeo che avrebbe effetti terribili sulla propria economia interna: scomparsa dei mercati per le eccedenze, disoccupazione, depressione e un bilancio gravemente squilibrato da un debito di guerra gigantesco.
Con la dottrina Truman, dunque, la politica estera americana volta pagina ed apre un confronto a tutto campo con l’Unione Sovietica. Si inaugura un’era fortemente conflittuale nei rapporti Est-Ovest. E con il Piano Marshall si sanziona la spaccatura in due dell’Europa.
Tra le finalità del Piano una serie di comuni obiettivi per le nazioni che lo accettano in termini di produzione industriale, stabilizzazione finanziaria e liberalizzazione del commercio:
-         ripristino della produzione antebellica di cereali da pane;
-         aumento della produzione del carbone;
-         espansione della produzione di elettricità;
-         sviluppo della capacità di raffinazione;
-         aumento della produzione dell’acciaio;
-         estensione dei trasporti di entroterra;
-         ripristino e rimessa in funzione delle flotte mercantili.

Fino al 1951 oltre 12 miliardi di dollari hanno raggiunto gli Stati beneficiari europei raccolti nell’OEEC (Organisation for European Economic Cooperation) incaricata di raccogliere e gestire le assegnazioni economiche del programma di finanziamenti. Le principali voci di spesa riguardano:
-         viveri, mangimi e fertilizzanti;
-         materie prime e prodotti semilavorati;
-         carburante;
-         macchinari e veicoli;
-         spedizioni e servizi.

“Gli esperti sono concordi nel sostenere che la configurazione dell’assetto economico dell’Europa del dopoguerra diventò riconoscibile a partire dal 1949. Quello fu l’anno in cui i frutti di investimenti forti e prolungati e dell’espansione della produzione cominciarono ad essere finalmente visibili alle tribolate popolazioni del Vecchio Mondo… gli investimenti, il commercio e la produzione industriale ebbero un’espansione senza precedenti, imperniata sulla ripresa della Germania”. D. W. Ellwood, Cit., pp.177-178.

DAL BURRO AI CANNONI: SVILUPPO ECONOMICO E TERRORE ATOMICO
Ben presto si capirà che le sole risorse economiche e finanziarie non bastano a ridare fiato ed equilibrio al mondo. È la guerra fredda a dettare l’agenda: “Un’epoca in cui la bomba atomica rendeva impensabile una guerra tradizionale, ma allo stesso tempo la pace era resa impossibile da un’inconciliabile ostilità ideologica”. D. W. Ellwood, Cit., p.136.

Lo scoppio della Guerra di Corea nel 1950 ribalta ogni prospettiva, decreta la fine del Piano Marshall nelle sue forme originarie e apre la strada al più grande programma di spese militari di tutta la storia. Se l’invasione della Corea del Sud viene vista come una manovra aggressiva sovietica a livello mondiale, a maggior ragione gli americani vedono nella difesa dell’Europa Occidentale un impegno strategico supremo. Ma ciò significa che da quel momento Washington detterà legge più di prima.
Si passa dal burro ai cannoni, ma nero su bianco vengono impresse precise condizioni:
-         Gli aiuti del Piano Marshall e gli aiuti militari sono benefici per voi, perché vi danno, in quanto europei, la possibilità di riuscire, se vi impegnate, a rendere l’Europa abbastanza forte da scoraggiare ogni aggressione;
-         Ma una cosa va precisata: questa forza può essere ottenuta soltanto attraverso l’unità. Come potenze separate, in rivalità tra loro, le nazioni dell’Europa libera sono veramente deboli, veramente esposte ai pericoli;
-         La produttività deve aumentare, perché l’Europa, per diventare tanto forte da essere inattaccabile, ha bisogno di una maggior disponibilità di viveri, di macchinari di quasi tutto.

Gli effetti della nuova ma necessaria politica di difesa si faranno sentire ben presto: “L’espansione dello sforzo difensivo americano sottoponeva la scorta mondiale di materie prime a una pressione eccezionale. A breve scadenza, il risultato fu di annullare buona parte dei passi avanti che erano stati compiuti, durante i primi anni del Piano Marshall, nella direzione di un equilibrio finanziario internazionale”. D. W. Ellwood, Cit., p.243.

Solo dal 1953 la situazione riprende un cammino più positivo, addirittura si profilano un boom postbellico delle nascite e un’espansione della produzione e delle esportazioni. Si affacciano sulla scena nuove parole per descrivere i processi in corso: impennata, sviluppo, prosperità, crescita economica…
Ma il quadro generale ormai è chiaro e dominato da una conflittualità ideologica planetaria per i successivi 50 anni fino alla caduta del Muro di Berlino: “La divisione dell’Europa e l’onere difensivo che ne era derivato erano stati duri da sopportare… Tutti erano contenti che il peggio fosse passato, ma il senso di benessere si dimostrava fragile, e la paura di una guerra atomica in certi momenti era fortissima”. D. W. Ellwood, Cit., p.273.

2 aprile 2012

NAPOLEONE, IL TRASFORMISTA ANTIFRANCESE CHE RIDISEGNÒ L’EUROPA

Ossessionato in gioventù dall’indipendenza della sua piccola isola, ma per ambizione ribalta ogni ideale: antifrancese, rivoluzionario e repubblicano, infine francese, monarchico e imperialista. Le involuzioni di un eterno straniero che, tra tendenze suicide e fiacche aspirazioni letterarie, trasforma ogni azione in volontà di potenza, si “francesizza”, si fa imperatore “squassando” la geografia del continente e ispirando a modo suo il Risorgimento. Un vero “antico Romano” dell’età moderna per l’eredità di leggi e conquiste

CONTRO I FRANCESI “VOMITATI” SULLE SUE COSTE
“FARÒ AI FRANCESI TUTTO IL MALE CHE POTRÒ”. Questo è il più forte sentimento del piccolo Napoleone a 9 anni nel collegio di Autun in Borgogna, prima di passare a Brienne e poi a Parigi dove il padre lo ha destinato alla carriera militare. Napoleone Buonaparte, futuro imperatore di Francia e dominatore dell’Europa, antifrancese??? Sì, perché non è francese ma corso e di origini toscane trovatosi a “patire” la sottomissione dell’isola dalla Repubblica di Genova, incapace di far valere la propria sovranità, ai transalpini che ne avevano ottenuto i diritti con il Trattato di Versailles il 15 maggio 1768. La Corsica è governata dal generale Pasquale Paoli e tenta una resistenza armata, ma la sconfitta di ponte Nuovo (8 maggio 1769) pone fine ad ogni speranza di indipendenza.
Napoleone nasce in questo scenario ad Ajaccio il 15 agosto 1769 e così rievocherà proprio a Paoli gli eventi della sua piccola terra: “Io nacqui quando la patria periva. Trentamila francesi vomitati sulle nostre coste, che annegavano il trono della libertà in flutti di sangue, questo fu lo spettacolo odioso che per primo colpì il mio sguardo. Le urla del morente, i gemiti dell’oppresso, le lacrime della disperazione circondarono la mia culla fin dalla nascita. Voi abbandonaste la nostra isola e, con voi, scomparve la speranza della felicità; la schiavitù fu il prezzo della nostra sottomissione: schiacciati sotto il triplice giogo del soldato, dell’uomo di legge e dell’esattore, i nostri compatrioti vivono disprezzati”. V. Criscuolo, Il giovane Napoleone, p.4.

Questo sarà Napoleone tra gli ardenti ideali giovanili e lo smisurato sogno di gloria e potere che lo porterà a cogliere ogni occasione storica possibile per realizzare il suo “IO VOGLIO” ripetuto sin da bambino. “Solo nel collegio di Autun, pensoso e cupo… Irritante con quel suo atteggiamento in cui si mescolano la fierezza del bambino umiliato e l’amarezza del vinto. Così lo punzecchiano, lo provocano. Sulle prime sta zitto, poi, quando gli dicono che i corsi sono vigliacchi perché si sono lasciati asservire, si scalmana e urla, rabbioso: se i francesi fossero stati in quattro contro uno, non avrebbero mai avuto la Corsica. Ma erano dieci contro uno”. M. Gallo, Napoleone – La voce del destino, p.16.

Uno straniero, dunque, giunto da una “terra propaggine dell’Italia” come gli ricordano i suoi insegnanti, ma “uno straniero venuto a fare della Francia lo strumento della sua ambizione” come accusa François-René de Chateaubriand (scrittore, politico,  diplomatico francese e soprattutto fiero oppositore di Napoleone).

“FARÀ TREMARE I RE… CAMBIERÀ LA FACCIA DEL MONDO”
Questa storia vogliamo raccontare, della trasformazione dell’uomo, di come Napoleone divenne Napoleone. Perché del BONaparte sappiamo tutto, uomo di Stato, conquistatore, fondatore di una dinastia, imperatore, legislatore e mito infranto in esilio. Segnando un’eredita immortale, fu ciò che potrebbe definirsi un vero “antico Romano”, cioè colui che crea la storia e ne condiziona i percorsi successivi. La sua legislazione e codificazione influenzerà tutti i regnanti e i governi tesi a seppellire gli ideali della Rivoluzione francese e ripristinare i privilegi d’Ancien Régime.
Sappiamo molto meno, o si sorvola spesso, sul BUOnaparte (vero cognome della sua casata poi francesizzato in BONaparte), il giovane erede di una famiglia di origini toscane con pochi quarti di nobiltà trasferita in Corsica nel XVI secolo. Una fanciullezza spensierata ma troncata bruscamente a causa dei disegni del padre Carlo, deciso a far fruttare l’appoggio dato ai francesi sull’isola per avviare il figlio Giuseppe alla carriera ecclesiastica e Napoleone a quella militare. Così quest’ultimo, a soli 10 anni, si ritrova nella Scuola reale militare di Brienne dove resterà per più di 5 anni prima di approdare a quella ben più importante di Parigi.
Un distacco traumatico dalla Corsica, lo scontro con una realtà sconosciuta, la complessione fisica, non imponente, l’accento straniero, il colorito olivastro tipico delle origini mediterranee gli costeranno lo scherno dei compagni. Ecco far breccia in lui momenti di depressione e l’idea della morte. Scrive: “Sempre solo in mezzo agli uomini, io rincaso per sognare con me stesso ed abbandonarmi a tutto l’impero della mia malinconia. Da che parte è rivolta oggi? Verso la morte. Nell’aurora dei miei giorni posso ancora sperare di vivere a lungo… Quale furore mi porta dunque a volere la mia distruzione? Senza dubbio, che fare in questo mondo? Dal momento che devo morire, non è lo stesso uccidersi?”. V. Criscuolo, Cit., pp.7-8.

Dalla sua condizione di isolamento si rifugia anche nella lettura: i classici, le grandi opere del teatro francese e autori settecenteschi, oltre che strategia militare, tecniche d’artiglieria e geografia. Una passione legata alla necessità di spaziare in un mondo tutto suo ma anche all’aspirazione di intraprendere la carriera di scrittore. Vocazione anche questa sentita come strumento per manifestare la sua frustrazione d’origine. Ecco quindi il grande sogno di una storia della Corsica per affermare con forza e imporre agli occhi dell’Europa i diritti dell’isola alla libertà e all’indipendenza. Ma nonostante numerosi tentativi, questi scritti non vedranno mai la luce.
Si manterrà sempre viva però l’avversione per i conquistatori francesi come scrive nelle Lettere sulla Corsica a Raynal: “Quanto gli uomini si sono allontanati dalla natura! Quanto sono vili, spregevoli, abietti! Quale spettacolo vedrò nel mio paese? I miei compatrioti carichi di catene e che baciano tremanti la mano che li opprime… Francesi, non contenti di averci rapito tutto ciò che ci era più caro, avete corrotto i nostri costumi. Il quadro attuale della mia patria e l’impossibilità di cambiarlo è dunque una nuova ragione di fuggire un mondo nel quale sono obbligato per dovere a lodare uomini che devo odiare per virtù”. V. Criscuolo, Cit., pp.17-18.
 
Nel frattempo la sua formazione procede tanto da superare la selezione da borsista per la Scuola reale militare di Parigi. Ha 15 anni e vuole vincere simultaneamente il concorso per accedere ad una scuola d’artiglieria e uno per ottenere il grado di ufficiale. “Una pazzia” gli dice un compagno, “IO LO VOGLIO” risponde Napoleone con la sua anima fiera e vendicatrice: “Nel gennaio 1785, mentre ascolta il prete con il quale si è appena confessato, poiché come tutti i cadetti deve farlo una volta al mese, non può soffocare un ringhio. Il prete lo ammonisce, gli parla della Corsica, della necessità di obbedire al re… D’altronde i corsi – prosegue il prete – sono spesso dei banditi dal carattere troppo fiero. Io non vengo qui per parlare della Corsica – esplode Bonaparte – e un prete non ha il compito di farmi la predica su questo tema. Poi spacca con un pugno la grata che lo separa dal confessore e i due vengono alle mani”. M. Gallo, Cit., p.30.
 
Per il suo professore di belle lettere, Domairon: “È granito scaldato da un vulcano”. Per il professore di Storia, De Lesguille: “È corso di carattere come di nazionalità e andrà lontano se le circostanze lo favoriscono”.
“Non è più lo straniero. Ha acquisito diritto di cittadinanza in quel mondo, da bambino l’avevano spinto brutalmente sott’acqua. Non è annegato. Ha preso ciò che gli tornava utile senza rinunciare ciò che gli stava più a cuore. Indossa l’uniforme ma non è cambiato né di pelle né d’animo. Si è agguerrito. Si è battuto. Non ha mai abbassato il capo. Ha mantenuto la testa ben dritta. Ha imparato la lingua di coloro che hanno vinto la Corsica, ma con quelle parole nuove ha forgiato il suo stile personale. Ha piegato le frasi dei francesi al ritmo nervoso del suo carattere. Si è preso quello che gli era necessario senza lasciarsi fagocitare”. M. Gallo, Cit., p.36.
 
Ecco confermarsi l’accusa di Chateaubriand sull’uomo che si adatta agli eventi e li piega ai suoi voleri. Miglior previsione sarà quella del padre in punto di morte: “negli accessi febbrili grida che la spada di Napoleone farà tremare i re, che il figlio cambierà la faccia del mondo”. M. Gallo, Cit., p.33.

DA BUON… A BON… ADDIO CORSICA, ORA SUL PALCOSCENICO DI FRANCIA
Con lo scoppio della Rivoluzione francese si presenta nel destino di Napoleone una svolta decisiva. Anche in questo caso, nella sua immaginazione la portata di quegli eventi rafforzano il suo pensiero e la sua condotta per l’indipendenza della Corsica tanto da maturare posizioni ostili alla monarchia: “Egli guardò insomma agli eventi rivoluzionari con gli occhi di un patriota corso, e li considerò perciò soprattutto come la tanto attesa occasione per scuotere finalmente il giogo dell’odiata monarchia e per far rinascere il sogno di una Corsica indipendente”. V. Criscuolo, Cit., p.25.
 
Ma come vedremo sarà proprio la Rivoluzione a strapparlo per sempre alla sua isola e offrirgli la Francia come palcoscenico per la sua epopea. Viene a sciogliersi insomma la contrapposizione fra la condizione di ufficiale dell’esercito francese e il patriottismo corso. Egli stesso scrive: “In un istante tutto è mutato. Dal seno della nazione governata dai nostri tiranni si è sviluppata la scintilla elettrica; questa nazione illuminata, potente e generosa si è ricordata dei suoi diritti e della sua forza; è stata libera e ha voluto che lo fossimo com’essa. Ci ha aperto il suo seno, ormai noi abbiamo gli stessi interessi, le stesse sollecitudini. Non c’è più mare che ci divida. Fra le stranezze della rivoluzione francese, questa non è la minore. Coloro che ci davano la morte come ribelli sono oggi i nostri protettori”.
E così muta la situazione politica della Corsica giacché l’Assemblea nazionale costituente, il 30 novembre 1789, proclama l’isola “parte integrante dell’impero francese… retta dalla stessa costituzione degli altri francesi”. Questo atto segna il ritorno del generale Paoli a capo politico dell’isola che, però, sotto sotto si rimetterà al lavoro per l’indipendenza mirando a sfruttare il più possibile l’ostilità tra Francia ed Inghilterra al fine di ottenere il maggior grado di autonomia.

Anche Napoleone tornerà in patria andando ad ingrossare le fila dei paolisti, ma puntando ad esercitare un ruolo di primo piano per sé e la sua famiglia. E col grado di ufficiale nelle truppe volontarie prende parte alla sfortunata spedizione di Sardegna del 1793 per sviluppare l’iniziativa rivoluzionaria nel Mediterraneo. L’attacco contro Cagliari fallisce miseramente con Napoleone che bombarda la Maddalena ma viene costretto al ritiro da un ammutinamento degli equipaggi. Il fallimento dell’impresa verrà dai francesi attribuita allo stesso Paoli accusato di aver segretamente favorito l’insuccesso perché di sentimenti anglofili. A sua volta Paoli accusa i Buonaparte di aver tramato contro di lui avendo intercettato una lettera del fratello di Napoleone, Luciano, in cui legge allusioni in tal senso. Immediata si scatena la caccia contro tutta la famiglia e la distruzione della loro casa di Ajaccio. È la fine!!! Napoleone insieme ai suoi si imbarcano per Tolone e Marsiglia, si spezza drammaticamente il legame con la Corsica. Ormai egli è francese e dal 1795 lo è anche il suo cognome: ora egli è BONaparte.
La Corsica invece entra nell’orbita inglese riconoscendo nel 1794 il re d’Inghilterra come proprio sovrano. Non durerà molto! Nell’ottobre 1796 i francesi ne riprendono possesso e Napoleone farà ricostruire la sua casa poi regalata ad un cugino nel 1805, quando è ormai saldamente padrone dei destini europei.

A PARIGI. VERSO COSA? VERSO L’ALTO NELLA “GUERRA ETERNA”
Nella capitale la situazione è profondamente mutata. Come sempre quando una rivoluzione ha bisogno di guardarsi le spalle dai nemici esterni ed interni sconfina nel “terrore”, o per così dire nelle “azioni energiche” contro tutti gli avversari o presunti tali. È il caso del Comitato di salute pubblica guidato da Maximilien de Robespierre, nato nel 1793 dalla sospensione della costituzione: “Che la Rivoluzione ricorresse alla dittatura, non era effetto del caso, un’intima necessità ve la spingeva, e non per la prima volta; e non fu nemmeno un caso ch’essa finisse con la dittatura d’un generale. Ma accadde che il generale fosse Napoleone Bonaparte, il cui temperamento, ancor più che il genio, non poteva adattarsi spontaneamente alla pace e alla moderazione. Fu questo l’imprevedibile che fece pendere la bilancia dal lato della guerra eterna”. G. Lefebvre, Napoleone, p.66.

Napoleone infatti, ormai tendente a considerare la forza come sorgente di legittimità e la guerra come occasione per distinguersi, decide di appoggiare questa politica. Partecipa così all’assedio di Tolone predisponendo il piano che costringe gli inglesi a prendere il largo e “guadagnando” anche un colpo di baionetta alla coscia sinistra.
Un risultato che lo eleverà a generale di brigata, e da qui al comando dell’Armata d’Italia per preparare una campagna militare il cui obiettivo è infliggere un colpo decisivo all’Austria e scacciarli dalla penisola. Intento non da poco, considerato che: “L’Armata d’Italia, infatti, è la più sguarnita tra quelle della Repubblica. È chiamata a svolgere un ruolo minore: bloccare una parte delle truppe austriache affinché le grandi armate del Reno, ben equipaggiate… riportino la vittoria decisiva su Vienna”. M. Gallo, Cit., p.141.
 
Una condizione organizzativa di grande difficoltà ben descritta direttamente dallo stesso Napoleone al Direttorio: “non avete idea della situazione amministrativa e militare dell’armata. Sinistri presagi la tormentano. È senza pane, indisciplinata, insubordinata… Amministratori avidi ci tengono nell’indigenza assoluta… La somma di 600.000 franchi che ci era stata promessa non è mai arrivata”.
Ma pensa: “Se sono quello che sento di essere, allora sarà vittoria, l’ascesa di una altro gradino. Verso che cosa? Verso l’alto. Ancora una volta non c’era altra scelta che avanzare”.
La fortuna lo aiuterà, e dalla funzione sussidiaria della missione il generale Bonaparte ribalterà le sorti di tutta la guerra facendo della campagna d’Italia (1796-1797) il terreno decisivo della vittoria sull’Austria, ma ancor di più ne trarrà il segno del suo inarrestabile destino. Come un novello Annibale attraversa le Alpi e coglie di sorpresa il nemico dividendolo dai sardi e sconfiggendoli separatamente nella battaglie di Millesimo, Ceva, Montenotte e Dego. E mentre il re di Sardegna si arrende con l’armistizio di Cherasco, lasciando tre piazzeforti alla Francia, approvvigionamenti e campo libero in Piemonte per le operazioni belliche, per gli austriaci non è finita: saranno sconfitti a Lodi e da lì i francesi entreranno trionfalmente a Milano. Alcuni patrioti italiani acclamano Bonaparte il “liberatore d’Italia” che scrive al Direttorio: “Se vorrete ancora concedermi la vostra fiducia, l’Italia sarà vostra”. E pensando proprio al Direttorio, e forse a tutta la Francia che lo osserva mormora: “Loro? O mia? Vedo il mondo scorrere sotto di me, come se fossi sollevato in aria. Non hanno visto ancora niente”. M. Gallo, Cit., p.152.

Il 1796 segna, dunque, la nascita di un uomo nuovo che abbandona per sempre gli ardori e le inquietudini giovanili per consegnarsi all’immortalità. Al centro della sua personalità si fisserà senza possibilità di compromesso la volontà di potenza. Ma resteranno comunque in lui influenze dell’ambiente corso sulla sua formazione, in particolare il senso fortissimo del legame familiare anche come riferimento di lotta politica: una volta conquistato il potere infatti utilizzerà i suoi fratelli come fedeli luogotenenti destinati ad esercitare in suo nome la sovranità nei territori loro affidati.
Ma la caratteristica più forte resterà fino alla fine la volontà titanica di superare ogni ostacolo e ogni limite. Georges Lefebvre parla “dell’aspirazione ad una grandezza eroica e pericolosa germinata fin dal tempo del collegio, dal desiderio di dominare il mondo nel quale si sentiva disprezzato”.

NON SI FERMERÀ PIÙ E SARÀ IMMORTALE
La Rivoluzione deve difendere se stessa e si spinge passo dopo passo verso la dittatura, che al suo culmine trova Napoleone. Egli poi deve difendere la Rivoluzione ma anche se stesso, quindi si spinge fino al potere supremo: “La sua fu una dittatura militare, dunque assoluta: soltanto lui avrebbe deciso le questioni dalle quali dipendeva la sorte della Francia e dell’Europa”. G. Lefebvre, Cit., p.69.

“Soldato venuto su dal nulla, discepolo dei philosophes, detestò il regime feudale, l’ineguaglianza civile, l’intolleranza religiosa; vedendo nel dispotismo illuminato una conciliazione tra l’autorità e la riforma politica e sociale, se ne fece l’ultimo e più illustre rappresentante: in questo senso fu l’uomo della rivoluzione. Il suo sfrenato individualismo non accettò tuttavia mai la democrazia… I suoi rapporti con gli altri uomini non si svolgevano sul piano della vita spirituale: s’egli ben conosceva le loro passioni e le volgeva meravigliosamente ai propri fini, faceva unicamente conto di quelle che permettono di asservirli e spregiò tutto ciò che li eleva al sacrificio: la fede religiosa, la virtù civica, l’amore della libertà, perché in queste sentiva degli ostacoli per sé… nello splendido e terribile isolamento della volontà di potenza, la misura non ha senso”. G. Lefebvre, Cit., pp.74-75.

I contemporanei e i primi storici tendono a spiegare la conquista imperiale e l’Impero stesso con l’ambizione di Napoleone. Non può bastar solo questo, la Rivoluzione per vivere doveva avanzare, ancor di più Napoleone: “Alcuni vollero vedere in Napoleone non altri che il difensore delle frontiere naturali: secondo loro, i repubblicani l’avevano fatto console, poi imperatore, perché gliele conservasse. Siffatto impossibile compito, funesto retaggio della Rivoluzione, lo costrinse a conquistare l’Europa e, alla fine, lo schiacciò… Soldato della Rivoluzione, egli non avrebbe mai fatto altro che difendersi contro i re dell’antico regime… Per altri ancora, egli fu non tanto francese quanto europeo e pretese di ricostruire dapprima l’impero carolingio, più tardi l’impero romano… In lontananza, l’immagine si purifica e svela il suo segreto: che è l’attrattiva eroica del rischio, l’affascinate seduzione del sogno, l’impulso inarrestabile del temperamento”. G. Lefebvre, Cit., pp.167-168.
 
In realtà è un uomo solo che non risponde a schemi tradizionali ma al senso di assoluto che vuole realizzare e di cui è unico protagonista, fino a mortificare Pio VII strappandogli la corona dalle mani e ponendosela in capo lui stesso il 2 dicembre 1804. “Col restaurare la monarchia e con l’accentuare il carattere aristocratico del regime, egli separava ancora di più la propria causa da quella della nazione… Napoleone aveva conquistato il popolo promettendogli la pace; poi si era imposto definitivamente riaccendendo la guerra. Nulla adesso gli impedirà più di abbandonarsi alla propria natura: la conquista imperiale, il dispotismo e l’aristocrazia stanno per rompere ogni freno sotto gli occhi della nazione, stordita, inquieta, ma costretta a seguire per non perire, il carro del Cesare trionfante”. G. Lefebvre, Cit., p.190.

Il fragore delle armi tuttavia non deve ingannare. Napoleone fu l’uomo del secolo, per quanto le sue più profonde ambizioni non si sono realizzate va detto che le sue azioni hanno lasciato tracce profonde. È con lui che il nuovo Stato in Francia trova il suo assetto amministrativo che resiste alla sua caduta e condiziona l’Europa. È comunque figlio della Rivoluzione e come tale contribuisce a distruggere l’antico regime e introdurre i principi dell’ordine moderno.
Napoleone va insomma inquadrato in un contesto storico fortemente influenzato da un’opera straordinariamente complessa. Ci affidiamo quindi all’analisi dello stesso Lefebvre che da un lato lo vede “erede della Rivoluzione in quanto ne rispetta il legato sociale ma con un temperamento autoritario che non può adattarsi alla libertà: condottiero, investito della dittatura per difendere la Rivoluzione contro le potenze d’antico regime, egli si allontana da codesta missione, per creare un impero europeo che la sua fantasia sogna senza dubbio di render più tardi universale e la cui idea non concorda mai con le aspirazioni della nazione”. Eppure, sebbene più favorevole alla tradizione aristocratica e assolutista, resta un rivoluzionario nei paesi conquistati plasmandone l’amministrazione e la società sul modello francese.
È un intimo legame quello che unisce Napoleone alla Rivoluzione: sembra tradirne i principi fondamentali, ma in realtà potenzia la necessità della dittatura “finché i partigiani dell’antico regime persistono nei loro sforzi di restaurazione; ne rispetta l’opera sociale assicurandone la durata e il radicamento con le sue vittorie. In tutti i paesi dove impone il suo dominio istituisce i fondamenti dello Stato e della società moderni”. In definitiva una nuova civiltà ben più duratura delle sue “fulminee cavalcate”.

Il resto sarà “guerra eterna”, impero, Elba, 100 giorni, Sant’Elena, immortalità…