10 ottobre 2013

JAN ŽIŽKA – IL CONDOTTIERO CECO, CIECO E PELLE PER TAMBURI

Dalla piccola e travagliata Boemia un eroe nazionale sempre alla testa dei suoi soldati in vita, nel buio dei suoi occhi e dopo la morte. Una micidiale scossa al potere e alle armi del Papato in nome dell’indipendenza e delle autonomie religiose prima del terremoto luterano
 
IL RISVEGLIO DEI POPOLI CONTRO L’OPPRESSIONE
Siamo agli albori del Quattrocento e il Papato si trova ad affrontare gravi divisioni interne e la pressione della cristianità sull’andazzo mai risolto del malcostume e della corruzione clericale. Con il lento sviluppo delle comunità urbane e la presa di coscienza degli Stati quali entità in concorrenza con il paradossale potere temporale della Chiesa, la fede e la superstizione cominciano a far meno presa sulle effettive esigenze di progresso e di autonomia dei popoli. Un esempio su tutti, sullo sfondo del Concilio di Costanza in Germania (1414-1417 d.C.) convocato per superare le terribili conseguenze dello Scisma cristiano d’Occidente (1378-1417), a seguito del prolungato scontro per il potere tra Papi e antipapi e tra Avignone e Roma, si erge la figura del boemo Jan Žižka (1360-1424): la classica storia del più debole che travolge il più forte. In questo caso, con le rinnovate malversazioni delle gerarchie ecclesiastiche e le mire espansionistiche tedesche sul suo territorio, egli incarna il ruolo vittorioso di leader nazionalista e difensore dell’autonomia religiosa. La combinazione tra le sue attitudini militari e una certa dose di fanatismo ne faranno un geniale innovatore bellico e uno dei simboli della coscienza nazionale ceca. Due gli obiettivi della sua vita: l’indipendenza della Boemia (antico regno dell’Europa centrale e attuale regione occidentale della Repubblica Ceca), e la sopravvivenza del credo hussita. Armando la sua spada di questo doppio ideale, il condottiero avvierà un’epopea rivoluzionaria nota come le Guerre hussite che assesteranno un duro colpo al Sacro Romano Impero e alla Chiesa proprio alla vigilia della valanga luterana: “Soldato altamente sperimentato, forgiato dall’esperienza di anni di combattimenti, raid, marce e mercenariato, Jan Žižka assunse la statura di leader quando la sua forte personalità e le sue attitudini militari si combinarono con il credo ussita, che sposò con una convinzione che sconfinava nel fanatismo. Le armate ussite che combatterono per l’autonomia religiosa e per almeno un quindicennio in Boemia, dovettero la loro efficacia in battaglia, pressoché per intero, alle notevoli capacità organizzative di Žižka, che seppe ricavare dei validi guerrieri da semplici contadini e fece armi di attrezzi agricoli. I suoi uomini combattevano infatti con forconi, falci, correggiati per la trebbiatura rinforzati, e con questi arnesi riuscirono ripetutamente a sconfiggere le sperimentate bande di mercenari di cui si componevano gli eserciti imperiali”. A. Frediani, I grandi condottieri che hanno cambiato la storia, p.592.
 
DI FANATISMO IN FANATISMO, NÈ PIÙ SANTI NÈ PURGATORIO
Ricalcando gli errori passati e non raddrizzando quelli futuri, su iniziativa dell’Imperatore del Sacro Romano Impero, Sigismondo di Lussemburgo, la Chiesa pensa bene di superare lo Scisma convocando quindi a Costanza un concilio che di conciliante non ha nulla: il Papa torna ad essere uno solo e di autorità esclusiva insieme al clero, e di sprazzi di riforma nemmeno l’ombra. Di più, tanto per chiarire la visione sulla tolleranza, il teologo Jan Hus sarà condannato al rogo per eresia. Sì, proprio il riformatore religioso boemo e padre del movimento hussita, che nel corso del concilio rifiuta di ritrattare le sue posizioni: “Se il predominio pontificio andava respinto, altrettanto doveva esserlo quello degli ecclesiastici di origine quasi interamente feudale, chiuso e privo di aperture verso la società e le sue esigenze pubbliche e nazionali. Così alla sottovalutazione del Papato egli aggiungeva quella dei religiosi regolari e secolari. Nella protesta hussita si accoppiarono poi princìpi e finalità di carattere squisitamente politico ed economico. Egli infatti esaltò il predominio ceco e la difesa dei deboli, degli oppressi, segnatamente dei contadini sistematicamente soffocati da un clero amico dei mercati, avido di benefici e denaro, quindi corrotto”. L. Gatto, La grande storia del Medioevo – tra la spada e la fede, p.204.

La morte di Hus, venerato come un martire, genera un moto di protesta religiosa che sfocia in un vero e proprio movimento insurrezionalista e nazionalista con Žižka guida e massimo interprete. Il clima successivo alla morte del teologo e le esigenze di protezione della Boemia, costantemente alle prese con le mire espansionistiche tedesche o slave, non colgono impreparato Žižka che ha già un’ottima reputazione da combattente: “Dimostrò fin dall’infanzia un carattere forte e aggressivo, che lo portò a perdere un occhio in una lotta giovanile; a vent’anni si liberò del suo modesto pezzo di terra e tentò la fortuna alla volta di Praga, sede della corte di Venceslao IV… Nel 1395, però, una parte dell’aristocrazia boema si ribellò al re, e il paese si lacerò in due per almeno un decennio, durante il quale il territorio si riempì di bande mercenarie assoldate dai due partiti contendenti. Žižka rimase fedele al sovrano… Le sue azioni proseguirono ben oltre la conclusione del conflitto, dopo la quale entrò a far parte, di fatto, in quella terribile piaga sociale di fine Medioevo che erano i mercenari smobilitati. Nel 1409 Venceslao, esasperato dai loro eccessi, pensò bene di inviarli al suo omonimo, monarca del regno unito di Polonia e Lituania, in conflitto con l’Ordine Teutonico”. A. Frediani, Cit., p.589.

Dopo Hus, però, cambiano le priorità della Boemia e quindi di Žižka che si unisce alla folla nei primi episodi di ribellione. Dal punto di vista spirituale, le ragioni della rivolta si impregnano dei precetti dei Taboriti, ala radicale del movimento hussita, i quali “rifiutarono qualsiasi gerarchia e si limitarono soprattutto a far proseliti fra i contadini dei quali vollero preservare le terre, anche quelle da loro requisite con la violenza al clero di campagna, e proclamarono la rivoluzione nelle città in nome della natio dei Cechi, da sottrarre ad ogni tendenza e presenza germanica. Sul piano liturgico essi proclamarono l’abolizione dei sacramenti, meno quelli del Battesimo e dell’Eucarestia nella quale rifiutarono la presenza reale del Cristo, considerata solo un fatto di natura spirituale e simbolica. Vennero respinte le pratiche ascetiche, i digiuni, le penitenze, i voti, i pellegrinaggi, le preghiere per i defunti e la più moderna concezione del Purgatorio di cui, non trovandosi menzione alcuna nei testi sacri, fu richiesto il completo e radicale allontanamento, mentre l’aldilà venne ridotto alla più tradizionale dottrina legata ai novissima, ossia all’Inferno e al Paradiso. Unico mediatore tra Dio e l’uomo fu ritenuto Gesù, mentre ogni altro elemento soprannaturale o naturale – compreso il culto della Vergine e dei santi – venne svalutato e accantonato”. L. Gatto, Cit., p.205.

LA SEMINA DI MORTE DEI CONTADINI GUERRIERI
In termini politici e religiosi è quanto basta ai rivoltosi per scagliarsi contro l’immobilismo del loro re, assaltare il palazzo reale e massacrare i consiglieri della corona. Un primo fuoco che nel 1419 costa la vita proprio a Venceslao IV, per colpo apoplettico, lasciando il trono al già citato suo fratello Sigismondo che presto occupa Praga con i mercenari tedeschi. A questo punto, in modo irrimediabile, entra e occupa la scena Jan Žižka che risolverà la crociata antihussita in ripetute disfatte per il nuovo sovrano. Il suo capolavoro consiste nello sviluppo di una nuova strategia militare che rende imprevedibile ed invincibile il suo esercito di contadini. In mancanza di fondi per armature ed attrezzature varie, Žižka mette a frutto le competenze di agricoltori per trasformarli in autentici guerrieri. Da qui la modifica degli strumenti agricoli in strumenti di guerra. La classica frusta per il grano diventerà il mazzafrusto, ma è soprattutto con il Wagenburg che si innesca una tattica geniale: “Un ruolo fondamentale veniva svolto dai carri, che i boemi usavano tradizionalmente per difendersi dalle cariche dei cavalieri tatari, mettendoli in circolo, legandoli l’uno all’altro con catene e creando una sorta di fortezza, denominata wagenburg e dotata anche di cannoni leggeri e bombarde a mano. Žižka andò oltre, utilizzandoli anche in modo offensivo, non solo come base per le sortite, ma anche come carri da guerra alla vecchia maniera, per approcciare e investire il nemico, e perfino come proiettili da scagliare contro avversari in sfavore di pendio, opportunamente riempiti per aumentarne l’impatto”. A. Frediani, Cit., p.592.

In questo modo, si susseguono le sue vittorie del boemo contro i partigiani di Sigismondo nelle città di Praga, Vìtkov, Kutnà Hora e Bor in cui nel 1421 perde anche l’altro occhio colpito da una freccia. Ma la cecità non ne ferma il ruolo di capo della rivoluzione, riuscendo a sconfiggere Sigismondo nuovamente a Kutnà Hora ed impedendogli di governare nel pieno dei poteri.
Sfortunatamente, lì dove le armi non riescono a piegare i rivoltosi ci pensano le divisioni religiose interne tra le varie fazioni hussite. Lo stesso Žižka, nel frattempo passato sul fronte dei meno estremisti Orebiti, schiaccia nel 1424 la resistenza dei più oltranzisti all’altezza di Malesov, lasciandosi dietro 14.000 morti sotto la furia del Wagenburg. Ottenuto un armistizio e una nuova unità tra gli hussiti, rivolge le sue mire vero la Moravia cattolica non ancora sotto il controllo del regno boemo. Tuttavia, nell’ottobre dello stesso anno la peste pone fine alla sua avventura, ma non al suo comando sulle truppe giacché “i suoi uomini che si proclamarono orfani, continuarono a combattere con la stessa determinazione e sotto insegne con la sua immagine dipinta, e si disse anche che i loro tamburi fossero fatti con la pelle del suo corpo, scomparso dopo la sepoltura”. A. Frediani, Cit., p.592.
 
Sotto la guida del suo successore, Procopio il Grande, i crociati di Sigismondo continuano a subire sconfitte su sconfitte ad Aussig, Mies, e addirittura patiscono l’invasione della Lusazia, della Slesia, della Sassonia e della Baviera fino a Norimberga. Ancor peggio andrà all’ennesima spedizione, voluta questa volta da Papa Martino V, con la disfatta a Taus nel 1431. L’impotenza di Sigismondo è sempre più evidente e comprende che potrà ufficialmente insediarsi sul trono solo attraverso concessioni religiose. Si arriva così alla stesura delle Compactata, una serie di deroghe dottrinali in linea con i Quattro articoli di Praga già stilati dagli hussiti nel 1420:

- Libertà per i preti e per i laici di predicare le Sacre Scritture in lingua locale;
- Comunione eucaristica sotto ambedue le forme, il calice contenente il vino e il pane, data sia agli adulti che ai bambini (in particolare, il calice divenne il simbolo degli hussiti);
- Espropriazione dei beni ecclesiastici, povertà del clero e rinuncia ai beni materiali;
- Pene esemplari per i peccati mortali commessi da membri del clero. Wikipedia

Ancora una volta però le divisioni interne riemergono, i Taboriti non accettano il compromesso e riprendono la guerra fratricida che si chiude con la loro sconfitta e la morte dello stesso Procopio nel 1434. La premessa è che “poi si divisero in sètte e cominciarono a combattersi tra loro gareggiando in radicalismo puritano. Il regime che lo incarnò fu una specie di comunismo che, per quanto si chiamasse ‘evangelico’, era già viziato di tutti i peggiori attributi totalitari… L’intolleranza e gli eccessi polizieschi finirono per provocare il malcontento della popolazione, che accolse con sollievo la proposta del Concilio di Basilea per l’appianamento del conflitto. I fanatici, che avevano la loro roccaforte nella città di Tabor, la respinsero. Ma furono sopraffatti dalla maggioranza che alla fine accettò un compromesso, sia pure basato su un testo piuttosto equivoco che autorizzava qualsiasi interpretazione, e riconobbe come re Sigismondo… La Chiesa aveva ancora a disposizione un secolo per evitare che gli Stati, il cui avvento era chiaramente inevitabile, trovassero nella Riforma il proprio puntello e a loro volta glielo fornissero. Ma sprecò quella specie di condizionale che la Storia le aveva concesso. E ora, ai primi del Cinquecento i nodi venivano al pettine”. I. Montanelli, Storia d’Italia 1250-1600, pp.381-382.

… Ovvero sta per arrivare Lutero...

10 giugno 2013

ERMES, DIO AMBIZIOSO “TUTTOFARE” PER I VIVI E PER I MORTI

L’instancabile frenesia della divinità greca per entrare a pieno titolo nell’Olimpo. Da un umile antro, tra astuzie, invenzioni, prodezze, decine di amanti illustri e una virile discendenza, marca la sua impronta su ogni aspetto dell’esperienza umana

DA UNA CAVERNA IL DIO TRA GLI UOMINI
Messaggero degli dèi; dio della comunicazione e dell’inganno, di oratori, letteratura, poeti, atletica, invenzioni e commercio; protettore di viandanti, vagabondi e ladri; psicopompo (accompagnatore dello spirito dei morti) e molto altro ancora… Insomma, ha il suo bel da fare Ermes, che non è completamente dio di nascita – procreato in una caverna e non sull’Olimpo – ma lo diventa in seguito grazie all’insieme e all’imposizione delle sue caratteristiche. Si configura quale intermediario fra gli uomini e gli dèi con specificità a loro modo contradditorie dovendo offrire una soluzione a tutti (buoni o cattivi, onesti o corrotti). Egli stesso, quindi, si farà ladro o distribuirà generosità; ma allo stesso tempo è benevolo e filantropo.
La storia, quella documentata e provata, può permettersi di accogliere volti e narrazioni legate al mito e perciò prive di orme realmente segnate nell’esistente? Si potrebbe rispondere che la storia ci aiuta a spiegare fondatamente come e perché l’uomo o un’intera società abbia compiuto un’azione precisa, il mito o la storia sacra invece ci ripropongono l’eterno e irrisolto dilemma del mistero dell’essere umano e della sua natura: “Per il credente, nella nostra civiltà, i racconti biblici – dalla creazione del mondo in poi – sono storia vera, ma anche storia sacra in cui bisogna credere. Anche le religioni non dottrinali conoscono storie sacre: in esse si crede spontaneamente, senza alternative, noi le chiamiamo miti… Ogni mito narra di un evento, per opera di personaggi diversi da quelli attuali, in seguito al quale qualcosa che prima non c’era stato avrebbe preso origine o qualcosa che prima era stato diverso sarebbe diventato com’è attualmente. Per lo più, tuttavia, il mito racconta l’origine di ciò che è ritenuto importante… Da quanto si è detto sulla forma e sul contenuto dei miti, discendono quasi spontaneamente le conclusioni sulla loro funzione o ragion d’essere… Il mito rende accettabile ciò che è necessario accettare (es. la mortalità, le malattie, il lavoro, la sottomissione gerarchica, ecc.)… Il mito, dunque, non spiega, per un bisogno intellettuale, le cose. Ma le fonda, conferendo loro valore… Ogni mito è una vicenda che implica almeno un personaggio, ma normalmente più di uno. Questi personaggi del mito sono extra-umani”. A. Brelich, Introduzione alla storia delle religioni, pp.7-13.
 
Uno di questi è per l’appunto Ermes! E al fine di indagare il flebile anello di congiunzione tra storia e mito sul destino quotidiano degli uomini, giunge in nostro soccorso la cultura greca che vede in lui “la divinità che presiede alla comunicazione, in tutte le sue molteplici forme. Non solo perché lo strumento privilegiato del dio è la parola, ma soprattutto perché la sua azione consegue un atteggiamento mentale medianico che cerca la contiguità del reale. Nella mente greca, l’universo può essere avvertito come una congerie di elementi discreti, staccati l’uno dall’altro e esterni alla coscienza. In alternativa, il cosmo – nella sua articolazione complessa – può essere letto come una trama di parti, connesse l’una all’altra e riconoscibili dalla mente perché compatibili con le sue categorie cognitive. Questa visione del mondo corrisponde alla cifra ermetica, che unisce e compone: Ermes, come figura divina del continuum fenomenico, è una sorta di mediatore universale. Ciò spiega le sue competenze di messaggero e mercante, e anche il patronato sulle attività e le situazioni legate a un passaggio: il viaggio, l’assopimento e il risveglio, il trapasso dalla vita alla morte, il linguaggio e la forza suasiva in esso riposta”. G. Zanetto, I miti greci, p.171.
 
Per i suoi compiti plurimi così prossimi all’uomo, dunque, Ermes si rivela il più umano tra gli dèi; generato da Zeus e dalla pleiade Maia (bellissima ninfa, simbolo della primavera) non direttamente sull’Olimpo ma in una grotta del Monte Cillene in Arcadia (periferia del Peloponneso). Un dio tra gli uomini esecutore della volontà paterna. Infatti nell’Atene periclea del V secolo a.C., lì dove in un certo senso risiedono la libera circolazione delle idee e le fondamenta della società democratica, è il sofista Protagora a narrare che “Zeus temette per la nostra specie, minacciata di andar distrutta; così mandò il suo messaggero, Ermes, sulla terra con due doni che avrebbero reso gli uomini capaci di praticare finalmente l’arte politica con successo e di fondare città dove potessero vivere insieme nella sicurezza e nell’armonia. I due doni mandati da Zeus sono aidos e dike. L’aidos è il senso di vergogna, la preoccupazione per l’opinione degli altri. È la vergogna che prova il soldato nel tradire i suoi compagni sul campo di battaglia, o il cittadino sorpreso a fare qualcosa di disonorevole. Dike in questo caso significa rispetto per i diritti degli altri. Ciò implica un senso di giustizia e rende possibile la pace civile risolvendo le dispute per mezzo dei giudizi. Acquisendo aidos e dike, gli uomini si sarebbero almeno assicurati la sopravvivenza”. I. F. Stone, Il processo a Socrate, pp.54-55.

Il filosofo utilizza questa cronaca mitologica nel corso del processo a Socrate, criticandone le osservazioni sul funzionamento dell’assemblea popolare allorché quest’ultimo sostiene “che quando il corpo governante della città deve occuparsi di un progetto di costruzione, manda a chiamare gli architetti per consiglio. Se la sua flotta o la sua marina devono essere potenziate, l’assemblea manda a chiamare i costruttori navali. Se un incompetente prova a prendere la parola, anche se bello, ricco, nobile, i cittadini riuniti in assemblea si mettono a ridere. Ma quando l’assemblea si riunisce per discutere fondamentali questioni di governo, indifferentemente si leva a dare il suo consiglio un architetto, un fabbro, un calzolaio, un commerciante, un marinaio, un ricco, un povero, chi è di nobile nascita e chi non lo è e nessuno muove loro rimproveri per la loro mancanza di istruzione o di pratica nelle questioni che sono in discussione”. I. F. Stone, Cit., p.54.
 
Questa osservazione viene vista come una mina assai pericolosa sui quei principi democratici che, invece,  sin dai tempi del legislatore e riformatore Solone prevedono il diritto di voto nelle assemblee e nelle giurie per tutti i cittadini maschi.
Un processo democratico ispirato ancor prima dallo stesso Zeus che, alla domanda di Ermes se distribuire aidos e dike proprio a tutti, gli risponde: “A tutti, e che tutti ne abbiano parte perché le città non potrebbero esistere se solo pochi possedessero aidos e dike. Tutti devono partecipare di quei doni perché la vita sociale sia possibile. Istituisci, dunque, a nome mio una legge una legge per la quale sia messo a morte come peste della città chi non sappia avere in sé pudore (aidos) e giustizia (dike)”. I. F. Stone, Cit., p.55.
 
A Protagora il racconto serve per trarre e offrire deduzioni implicite sul metodo decisionale relativo a questioni politiche: “Gli ateniesi hanno ragione nel lasciar parlare tutti coloro che lo desiderano, convinti, come sono, che tutti debbano essere partecipi di questa virtù perché possano esistere in città… Adeguatamente, Socrate, ti è stato dimostrato, come almeno mi sembra, che non a torto i tuoi concittadini permettono che un fabbro, un calzolaio, chiunque sia ascoltato nelle deliberazioni politiche e che non a torto ritengono che la virtù possa essere insegnata e si possa acquisire”. C. Mossé, Pericle, p.170.
 
Ecco l’interventismo, l’immanenza, della divinità greca sui fatti umani. Ermes esegue gli ordini e parte per la terra a distribuire aidos e dike. Ecco un dio “concreto” esattamente opposto al fratello e futuro alleato Apollo, interprete e profeta di Zeus, rappresentazione della lontananza incommensurabile della natura divina: “Queste due divinità rappresentano infatti i due estremi entro i quali pencola il sentimento greco della vita e dell’uomo… La mente greca, posta di fronte al problema religioso, è caratterizzata da una singolare oscillazione: da un lato riconosce l’infinita distanza tra mortali e immortali, dall’altro avverte che una scintilla divina è comunque presente nel cuore imperfetto degli uomini… La differenza tra i due è scritta già, simbolicamente, nelle diverse circostanze della loro epifania: Apollo appare all’improvviso sull’Olimpo, suscitando sorpresa e paura; Ermes esce dalla grotta montana dove Maia l’ha partorito. L’umidità tiepida – che rimanda al tepore della carne irrorata di sangue – è ciò che produce Ermes e impronta per sempre la sua azione”. G. Zanetto, Cit., p.172.
 
INNI ALL’INVENTORE, LADRO, FURBO, GENEROSO E FRATERNO
Ermes svela sin dalla nascita le sue doti, puntigliosamente descritte in alcuni anonimi inni omerici, che nell’episodio della lira e del furto delle vacche di Apollo mostrano chiaramente l’inventiva, la furbizia e la scaltrezza del dio ancora in fasce: “Un dio che non è tra i più grandi tra quelli di primo piano… Bambino appena nato (non da una grande dea, in una grotta) Ermes si alza dalla culla per intraprendere una grande azione che gli assicuri un posto tra gli altri dèi dell’Olimpo. Ma ancora sulla porta si imbatte in una tartaruga e non tarda ad ucciderla e a preparare dal suo guscio la prima lira (invenzione); solo dopo quest’episodio egli parte per realizzare il suo piano: ruba gli armenti del dèi, custoditi da Apollo, e li fa camminare a ritroso per confondere le tracce del furto (astuzia, inganno)… Poi ritorna nella sua culla e, all’arrivo di Apollo, nega e spergiura (Ermes dio del furto e dello spergiuro anche nell’Odissea) richiamandosi all’evidenza che egli è appena nato. La lite finisce davanti a Zeus che ride dell’accaduto, e finalmente i due fratelli si mettono d’accordo: Ermes cede la lira ad Apollo (che così diventa dio della arti musiche) ed Apollo gli dà in cambio le funzioni del pastore divino”. A. Brelich, Cit., pp.209-210.
 
… Ma quando si compì la volontà del grande Zeus e nel cielo si volse per lei il decimo mese, il bimbo nacque, e venne in chiaro ogni cosa.
Essa generò un figlio versatile, dalla mente sottile, un predone ladro di buoi, signore dei sogni: uno che spia nella notte accanto alle porte, destinato a compiere ben presto grandi imprese fra gli dèi immortali.
Nato al mattino, a mezzogiorno già suonava la cetra, e la sera rubò le vacche di Apollo arciere. Quando uscì fuori dal grembo immortale della madre, non rimase a lungo tranquillo nella culla sacra, ma si alzò in piedi e varcò la soglia dell’antro spazioso, cercando le vacche di Apollo.
Là fuori trovò una tartaruga, e ne trasse infinita gioia: Ermes fu il primo a produrre una tartaruga canora…
“… Ora ti prendo e ti porto in casa. Non ti lascio andare: mi servi, sarai la mia prima vittoria”.
Così dicendo, la prese con entrambe le mani ed entrò in casa, portando il grazioso giocattolo. Rovesciò la tartaruga montana e con una lama di grigio ferro ne cavò fuori il midollo…
… Tagliò canne di giunco nella giusta misura e le fissò nel guscio della tartaruga, dopo aver praticato dei fori.
Tutt’attorno distese con arte una pelle di bue; applicò due bracci e li unì con un ponticello, e tese sette corde di minugia di pecora, ben intonate.
Quand’ebbe terminato il grazioso giocattolo, lo impugnò e col plettro saggiò le corde, a ritmo: un tintinnio acuto rispose al tocco della mano. Il dio intonò un canto soave…
… E mentre cantava già meditava altre imprese nel cuore.
Inno omerico a Ermes 1-62
 
Questa invenzione servirà davvero per la sua prima vittoria dopo il furto dei sacri bovini in cui spende grande arguzia e dissimulazione:
Il figlio di Maia, l’Arghifonte dall’occhio acuto, staccò dalla mandria cinquanta vacche mugghianti e le spinse per la spiaggia sabbiosa, per vie traverse, rovesciando le orme; memore dei suoi trucchi, invertì gli zoccoli, quelli davanti dietro e quelli dietro davanti: lui invece cammina di fronte…
… Fece saziare d’erba le vacche mugghianti e le spinse compatte nella stalla…
… Prese un bel ramo d’alloro e lo scorticò col ferro, impugnandolo saldamente: una calda vampa si diffuse; Ermes fu il primo a mostrare l’accensione del fuoco.
Prese molta legna asciutta e dura e l’accumulò in abbondanza in una fossa profonda: la fiamma brillò, diffondendo lontano la vampa del fuoco ardente…
… Spinse fuori vicino al fuoco due vacche mugghianti, dalle corna ritorte: aveva dentro una grande energia; le sospinse a terra entrambe, sulla schiena, ansimanti, poi si chinò, le girò, le trafisse al collo.
Aggiungeva fatica a fatica, tagliando la carne ricca di grasso: la infilzò su spiedi di legno e l’abbrustolì, la carne insieme alle schiene pregiate e al nero sangue chiuso nelle viscere…
… Dopo aver compiuto ogni cosa nel modo dovuto, il dio gettò i sandali nell’Alfeo dai gorghi profondi. Spense la brace e disperse la nera cenere, mentre ancora era notte: risplendeva la bella luce di Selene…
… Si diresse subito ai pingui penetrali della grotta, leggero sui piedi: non si sentiva il rumore dei passi. Rapidamente il glorioso Ermes entrò nella culla: con le fasce attorno alle spalle, giaceva come un neonato, giocando ad avvolgere con le mani la coperta alle ginocchia, e tenendo nella sinistra l’amabile tartaruga.
Ma, sebbene dio, non sfuggì alla madre divina, che gli disse: “Che hai fatto briccone? E da dove arrivi a quest’ora di notte, svergognato… … Va alla malora! Tuo padre con te ha generato un gran guaio per gli uomini mortali e per gli dèi immortali”.
Ed Ermes le rispose con parole abilissime: “Mamma, perché vuoi spaventarmi, come se fossi un bambino che non parla e ha poca esperienza nel cuore, pieno di paura per i rimproveri della madre? Invece io mi dedicherò all’arte più lucrosa di tutte, e provvederò a me e a te in futuro; noi due non dovremo restarcene qui senza offerte e senza preghiere, soli fra gli dèi immortali, come tu vorresti. È meglio passare la vita in compagnia degli dèi, ricco e ben fornito di campi, che rimanere qui, in questa grotta fumosa. E quanto all’onore, avrò anch’io gli stessi privilegi di Apollo. Se mio padre non me li darà, allora cercherò di diventare il signore dei ladri: ne ho certo le doti”...
 
(Apollo non fatica molto a scoprir la verità, ndr)
… “Bimbo che stai nella culla, dimmi subito dove sono le vacche. Se no, aspettati un brutto litigio. Ti scaglierò giù nel Tartaro tenebroso, nell’oscurità maledetta e senza scampo: né tua madre né tuo padre ti riporteranno alla luce, ma vagherai sotto terra, regnando su genti perdute”. 
Ermes gli rispose con un abile discorso: “Figlio di Letò, perché queste parole così severe? E perché vieni qui a cercare le vacche dei tuoi campi? Non le ho viste, non so e non ho sentito nulla; non posso darti informazioni e chiederti un compenso. Ho forse l’aspetto di un robusto ladro di buoi? Non mi occupo di queste cose: ho altri interessi…
… Sono nato ieri: ho i piedi teneri, e il terreno è duro. Se vuoi, te lo giuro solennemente sulla testa di mio padre”…
… L’arciere Apollo accennò un sorriso e rispose: “Bugiardo! Che gran briccone che sei! Da come parli, credo proprio che ti introdurrai spesso nelle case dei ricchi, di notte, e lascerai molte persone sul lastrico, svaligiando la casa senza rumore… … Andiamo da Zeus Cronide: lui ti darà torto o ragione”…
… Presto i bellissimi figli di Zeus arrivarono sulla sommità dell’Olimpo odoroso e alla casa del padre Cronide, dove per entrambi era pronta la bilancia della giustizia…
… “Padre, sentirai ora una storia interessante, tu che mi rimproveri di essere avido di bottino. Ho trovato questo bimbo – un furfante matricolato – sul monte Cillene, dopo un lungo cammino: così sfrontato non ne conosco nessuno, né fra gli dèi né fra gli uomini che sulla terra vivono di ruberie. Ieri sera ha rubato le mie vacche dal pascolo e le ha portate via lungo la riva del mare risonante, dritte a Pilo: ha lasciato due serie di tracce, stranissime e stupefacenti, opera di un dio possente”…
… Dopo queste parole, Febo Apollo si sedette.
Ermes tenne ben altro discorso fra gli immortali, dopo aver salutato il Cronide, signore di tutti gli dèi: “Padre Zeus, sii certo che ti dirò la verità: sono sincero, infatti, e incapace di mentire. È venuto a casa nostra a cercare le vacche dondolanti, stamane, poco dopo il sorgere del sole; ma non portava come testimone oculare nessuno degli dèi. Mi ordinava con molta insistenza di parlare, e più volte minacciava di gettarmi nell’ampio Tartaro, solo perché lui è nel pieno fiore dell’ambiziosa giovinezza e io invece sono nato ieri. Ho forse l’aspetto di un robusto ladro di buoi? Credimi, visto che ti vanti di essere mio padre: non ho portato a casa le vacche – così possa aver fortuna – non ho neanche oltrepassato la soglia: è la pura verità”…
… Rise forte Zeus, vedendo con quanta scaltrezza negava il furto della vacche quel suo malizioso figliolo. Ordinò poi che di comune accordo tutti e due si mettessero alla ricerca, e che facesse da guida Ermes, il messaggero, e indicasse senza più trucchi il luogo dove aveva nascosto le vacche dalla testa robusta…
… I due bellissimi figli di Zeus si diressero in fretta a Pilo sabbiosa e arrivarono al guado dell’Alfeo. Raggiunsero i campi e la stalla altissima dove le bestie erano state custodite nelle ore notturne. Qui Ermes entrò nell’antro roccioso e ricondusse alla luce le vacche dalla testa robusta.
Apollo, guardando di lato, vide le pelli sulla rupe scoscesa, e subito chiese al glorioso Ermes: “Come sei riuscito, furbetto, a scuoiare due vacche, tu che sei così piccolo? Mi chiedo quale sarà la tua forza in futuro. Bisogna proprio che tu non cresca troppo, Cillenio, figlio di Maia”.
Così disse, e gli strinse le mani con saldi legacci di vimini; ma questi si radicarono a terra sotto i suoi piedi, si avviticchiarono fra loro e avvilupparono facilmente tutte le vacche, abitatrici dei campi, per volontà di Ermes dai pensieri nascosti. Apollo si stupì a quella vista.
Allora Ermes scrutò furtivamente il terreno, cercando di nascondere la fiamma del suo sguardo; e facilmente riuscì nell’intento di placare l’arciere, il figlio glorioso di Letò, pur così ostile. Tenendo la lira nella sinistra lo saggiò col plettro, a ritmo: e quella, al tocco della mano, risuonò melodiosa. Sorrise Febo Apollo, deliziato: gli arrivò al cuore il suono armonioso dello strumento divino…
… Apollo fu preso nel cuore da un sentimento struggente, e così gli parlò con alate parole: “Macellaio, faccendiere instancabile, compagno di mensa, questo canto vale davvero cinquanta vacche! Credo proprio che andremo d’accordo… … Ora, poiché sei così sapiente, per quanto piccino, siediti, caro, e ascolta le parole di chi è più anziano.
Presto avrete grande fama fra gli dèi immortali, tu e tua madre. E sta’ certo di questo: ti giuro sulla mia lancia di corniolo che io ti farò diventare glorioso e beato fra gli immortali, ti darò splendidi doni e non ti tradirò mai”.
Inno omerico a Ermes 68-462
 
INNUMEREVOLI FATICHE MA SEMPRE TEMPO PER LE “DONNE”
Ed Ermes sarà un dio a tutti gli effetti, ed avrà certamente molta fama, impressa da Omero nelle sue opere, o ancor di più in un lungo elenco di celebri amanti e figli dotati…: “Manifesta qualche carattere grossolano e indecente, ciò risponde al suo spiccato erotismo cui allude già l’Iliade e ai suoi poteri di datore di fecondità, variamente attestati… Egli viene concepito come un aspetto permanente della realtà, che si manifesta su tutti i piani di questa, e così il cosmo divino greco lo include tra i propri fattori eterni”. A. Brelich, Cit., pp.210-211.
 
Sono diverse, infatti, le relazioni amorose che gli vengono attribuite e che lo rappresentano come dio fallico e fecondo. Tra le sue conquiste: sacerdotesse, principesse, ninfe e amazzoni; la più famosa, e invidiabile, è certamente Afrodite dea dell’amore che “presiede all’attrazione e all’incontro sessuale: è una forza insieme biologica, psicologica e affettiva. La sua azione è inesorabile: nulla, fra tutto ciò che esiste, può resisterle, né uomini né dèi, né esseri raziocinanti né animali bruti. I miti che la riguardano raccontano vicende d’amore, in cui la dea interviene come protagonista attiva o come suscitatrice di desiderio, e talvolta in entrambi i ruoli. Sono storie spesso violente, non di rado tragiche, poiché i Greci avvertivano l’eros come una passione lacerante, capace di travolgere ogni assetto costituito: in esso vi è la radice di una verità nuova e più autentica, ma anche il pericolo dell’accecamento e della follia”. G. Zanetto, Cit., pp.101-102.

Diverse fonti derivanti dai poeti, per quanto indimostrabili o contrastanti, assegnano ad Ermes ed Afrodite un’ampia discendenza tra cui Priapo, simbolo dell’istinto sessuale e della forza generativa, a conferma dell’origine di Ermes come divinità fallica.

E ancora, Ermafrodito, dio bisessuale simbolo di doppiezza dai vasti poteri d’inseminazione e riproduzione, così fatto perché gli viene concesso di congiungersi alla ninfa Salmace di cui si innamora diventando metà uomo e metà donna.

Altra illustre conquista del nostro dio, e se così fosse sarebbe sconvolgente, la famosa Penelope; non è dato sapere se prima del matrimonio o durante l’attesa del glorioso marito mentre disperata tesse e disfa la tela. Ciò naturalmente non arreca alcun danno ai rapporti tra Ermes e Ulisse che al contrario, come desumiamo dall’Odissea, riceverà la sua benevolenza nell’episodio di Circe: “Dove vai solo per queste colline, infelice, senza conoscere i luoghi? I tuoi compagni in casa di Circe sono rinchiusi, come maiali, in solide stalle. Tu sei venuto qui a liberarli? Io ti dico che neppure tu tornerai, ma rimarrai là con loro. Ma no! Voglio salvarti, tirarti fuori dai mali. Prendi, entra nella casa di Circe con quest’erba benefica, che terrà lontano da te il mal giorno… … Quando Circe ti colpirà con la sua lunga bacchetta, tu sguaina dal fianco la spada affilata e balza su Circe, come se volessi ammazzarla. Lei, spaventata, ti inviterà nel suo letto: tu allora non rifiutare il letto di una dea, perché liberi i tuoi compagni e ti dia il buon ritorno”…
Omero, Odissea X 274-309
 
Tra i significati del termine mythos troviamo “discorso” o “narrazione”, nella fattispecie abbiamo narrato di una figura mitologica di cui non possiamo scrivere né data di nascita né di morte. Probabilmente è ancora attorno a noi se per un attimo risaliamo al concetto o al bisogno universale di personificazione, al di là di qualunque fede personale: “Il problema della divinità è stato sempre impostato e risolto nei termini della personificazione. Vale a dire: l’interesse è stato volto a ciò che una determinata divinità dovrebbe personificare. Per es., a proposito della religione babilonese, gli dèi sono personificazione di forze, oggetti e fenomeni naturali e cosmici, e anche di concetti astratti. Abbiamo così il dio cielo (Anu), il dio dei fenomeni atmosferici (Enlil), il dio fuoco (Girru), il dio giustizia (Mesharu), ecc.”. D. Sabbatucci, Seminario di storia delle religioni, p.131.

15 maggio 2013

FRANCESCO CÒPPOLA E I FURORI DI “POLITICA” SULL’ITALIA CHE MAI FU

Teorico del nazionalismo imprime in una rivista mensile il progetto per lo Stato forte, l’ordine sociale e l’evoluzione imperialista della Nazione

DA GIORNALISTA IDEOLOGICO UN PROGETTO PER LA NAZIONE
Francesco Cóppola nasce a Napoli il 27 settembre 1878, si laurea in giurisprudenza e inizia da subito l’attività di giornalista schierato sul fronte nazionalista, che dalla fine dell’800 si impone tra le principali ideologie culturali e politiche del Paese. Questa chiara identificazione ideale lo porterà a fondare, nel 1911, insieme ad altri protagonisti, l’Associazione Nazionalista Italiana propugnatrice di obiettivi imperialisti in politica estera e una radicale riforma della politica interna, da ripulire dei suoi immobilismi democratici o socialisteggianti, individualisti o clericali. Un vero e proprio partito politico, dunque, che nella concezione del Cóppola deve avere un percorso distinto e divergente dal liberalismo.
 
Il tormentato dibattito sull’intervento o la neutralità dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale lo vedrà partecipare da influente teorico ad un vero e proprio scontro che animerà quell’epocale momento. In suoi articoli pubblicati sul settimanale “L’Idea Nazionale”, tra l’ottobre e il novembre 1914, quali Per la democrazia o per l'Italia? e Il sacro egoismo, prospetta la possibilità per la nazione di cogliere l’occasione storica di elevarsi al rango di potenza mondiale. In Precisiamo le idee e ancor più in Le ragioni politiche della nostra guerra redige una lista di obiettivi cui l’Italia potrebbe aspirare: salda unità nazionale, sicurezza dei confini, domini nell’Adriatico e nel Mediterraneo a spese degli Ottomani, espansione economica, emancipazione dell’industria e dell’economia italiana, soprattutto nei settori siderurgici e marittimi.
 
Ma proprio la Grande Guerra non darà le soddisfazioni nazionaliste auspicate. Scoppia il mito della Vittoria mutilata dalle mancate compensazioni territoriali per l’Italia previste nel Patto di Londra stipulato segretamente nel 1915 con inglesi, francesi e russi per intervenire contro gli austro-tedeschi: “Indubbiamente il patto di Londra impegnava ancora, anche se nel frattempo uno dei suoi contraenti, la Russia, era venuta meno, l’Italia, la Francia e l’Inghilterra, entrambe decise a rispettarlo. Il suo spirito era stato però profondamente superato dagli avvenimenti successivi alla sua stipulazione. Non solo gli slavi del sud avevano avuto riconosciute le loro aspirazioni d’indipendenza ed erano stati in un certo senso associati al blocco antitedesco e potevano, quindi pretendere di fare sentire ora anche la loro voce sull’assetto territoriale di zone che li riguardavano direttamente, ma, ciò che più conta, l’associazione degli Stati Uniti aveva profondamente mutato tutti i termini della questione. Gli Stati Uniti non avevano sottoscritto il patto di Londra, non lo avevano mai riconosciuto o accettato…”. R. de Felice, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, pp.444-445.
 
UNA RIVISTA TRA TEORIA E AZIONE
Il Nazionalismo entra così nella sua fase propagandistica più vigorosa, avvicinandosi via via ad una piattaforma comune con il nascente movimento fascista. In questo Cóppola trova la valvola di sfogo per le sue teorie fondando insieme ad Alfredo Rocco, nel dicembre 1918, il mensile “Politica” – rivista di cultura, di critica, di informazione e di azione politica. In sostanza uno strumento, una tribuna dove esporre dottrine e visioni sulla storia e le prospettive nazionali tra Risorgimento ed evoluzione imperiale: “Dando inizio alla rivista Politica, Alfredo Rocco e Francesco Cóppola avevano redatto un manifesto che è stato a ragione considerato la magna charta teorica della politica estera nazionalistica e ad un tempo la sistemazione teorica del movimento. In quel manifesto, i due esponenti del nazionalismo italiano, dopo aver fornito della guerra un’interpretazione che poneva al centro di essa l’urto di opposti imperialismi ma anche di opposte ideologie, individuano nella democrazia e nelle azioni che si richiamano ad essa il nemico da battere… Si profila così il modello dello stato voluto dai nazionalisti: pacificato all’interno dall’abolizione della lotta di classe e dai saldi principi d’ordine, disponibile all’esterno a lottare con gli altri stati, per la conquista dello spazio necessario all’espansione nazionale”. N. Tranfaglia, La Prima Guerra Mondiale e il Fascismo, p.148.
 
“Politica”, imponendosi per successo e autorità come l’unica grande rivista di politica estera, raccoglierà illustri adesioni e collaborazioni da parte di Benedetto Croce, Giovanni Gentile e molti altri. Dal 1919, poi, le delusioni italiane verranno raccolte dai nazionalisti in funzione antiborghese e antiliberale avviando una progressiva correlazione con la rivoluzione fascista che Cóppola descrive come “nuova vittoria dell’idealità nazionalista sopra le ideologie democratiche della decadenza europea… Nata, sia pure inconsapevolmente, da uno stato d’animo nazionalista, preceduta e guidata idealmente dal nazionalismo in tutti i carripi della politica, fiancheggiata dal nazionalismo nella dura battaglia quotidiana, sanzionata e consacrata dal nazionalismo nella sua vittoria, essa non può non riconoscere nel nazionalismo la propria coscienza, la propria essenza e la propria regola. A patto che la rivoluzione fascista si riconosca e si affermi consapevolmente in quella organica interpretazione del più grande Risorgimento e della storia italiana nella storia del mondo che è appunto la dottrina nazionalista”. In altre parole egli descrive la tesi della “fase fascista della rivoluzione nazionalista” e del “compito immenso di ricostruire lo Stato italiano, fondare l'Impero italiano”. Sarà il fascismo, invece, ad ingoiare il nazionalismo. 
 
Giornalista, ma anche giurista, ritroviamo il Cóppola delegato italiano alla Società delle nazioni (progenitrice dell'attuale Onu), poi membro della Commissione dei diciotto per concludere la riforma costituzionale diretta da Alfredo Rocco; e ancora Accademico d’Italia dal 1929, Professore di diplomazia e storia dei trattati presso la facoltà di scienze politiche dell’Università di Perugia, e di diritto internazionale all’Università di Roma. Altalenanti invece le sue posizioni rispetto al partito nazista: se agli inizi manifesta sfavore per la presa del potere di Hitler, soprattutto rispetto alla contestata ideologia razzista, successivamente supera le sue resistenze intravedendo nella Guerra di Spagna (1936-1939) l’inevitabile confronto di blocchi ideologici, che con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale significherà, per lui, la riedizione del vecchio tema della guerra rivoluzionaria e della crociata per la salvezza della civiltà europea dalla “barbarie bolscevica e americana”. Morendo ad Anacapri nel 1957, farà in tempo a veder trionfare proprio quella “barbarie” contro cui aveva sparso fiumi d’inchiostro nella sua rivista.
 
IL MANIFESTO DI POLITICA
Primo numero di fondamentale importanza perché fissa in punti chiaramente definiti un’ideologia di stampo nazionalista ed un progetto “essenzialmente spirituale ed intellettuale rivolto assai più a creare nel pubblico uno stato di coscienza e di cultura antitetico a quello diffuso dalla ideologia liberal-democratica, che non a propugnare mutamenti di istituzioni e di regimi politici”.
L’articolo, molto ampio, parte da una complessa valutazione della Grande Guerra, soffermandosi principalmente su quella che viene considerata la profonda contraddizione tra la realtà della guerra e l’ideologia della guerra. La prima, indubbia espressione di “un conflitto tra nazioni, razze ed imperi quale eterna lotta dei popoli per l’esistenza e il dominio”. La seconda quale immane scontro tra dottrine e concezioni politiche: “Una lotta fra la democrazia e l’autocrazia, fra il diritto e la forza, fra il principio di nazionalità e l’imperialismo”, dimenticando, si rileva, che le potenze dell’Intesa (Inghilterra, Francia e Russia), ad eccezione dell’Italia, sono non meno imperialiste degli Imperi Centrali (Germania e Austria-Ungheria).
 
Allora si cerca di giustificare la guerra democratica, antimperialista e pacifista come “il miglior mezzo per ottenere dalle masse i sacrifici individuali necessari alla vittoria”. Dunque nasce, e viene inappellabilmente condannata, l’assurda concezione della guerra antimilitarista, della guerra antiguerresca, definendo l’ideologia democratica come ideologia della sconfitta. Viene quindi condannata per il suo spirito di rinunzia, per la sua demagogia e per il suo vacuo umanitarismo ed universalismo. Pertanto l’obiettivo di “Politica” è la trasformazione del sentimento oscuro ed istintivo in dottrina e volontà. Più chiaramente è un’opera di ricostruzione spirituale del rapporto tra società ed individuo. La società non va considerata, in base alla filosofia demoliberale, come una somma di individui, ma come un vero e proprio organismo avente esistenza e fini completamente distinti da quelli dei singoli. Diversamente ancora dal mito dell’unica società umana che è invece somma di società che conducono fra di esse una lotta darwiniana di sopravvivenza e predominio dei più adatti. E questi i punti fermi: “La disciplina delle disuguaglianze, la gerarchia e l’organizzazione all’interno; la libera concorrenza e la lotta tra i popoli in campo politico, economico o anche militare all’esterno”.
 
Come si vede, si tratta della più coerente applicazione delle idee di Enrico Corradini sullo spostamento della lotta tra le classi alla lotta tra le nazioni; non più lotta di classe sul piano internazionale ma scontro tra nazioni plutocratiche e proletarie. Insomma una vera e propria ideologia di guerra. Da ciò nasce la visione dello Stato come la più alta forma di organizzazione della società sotto un potere supremo. E dallo Stato tutto si muove, la stessa libertà. Si contrappone in questo modo il principio del governo dei più capaci alla sovranità popolare. In altre parole, lo Stato percorre la strada della subordinazione delle masse ad un potere il cui interesse è uno sviluppo non individualista, e della coordinazione da parte di un’élite capace di superare i propri settarismi e particolarismi per realizzare i grandi interessi dello Stato.
All’esterno invece esso si pone in un rapporto di concorrenza e di lotta in base alla formula “A ciascuno secondo la sua potenza”. Si sviluppa pertanto l’idea dello Stato-forza come interesse di tutti, “più forte, più potente, più ricco è lo Stato, più prospera è la vita dei cittadini”. A questa idea si aggiunge quella dello Stato-Nazione, vista come la coscienza di un unico organismo sociale che, ad esempio, ha favorito in forza e prosperità nazioni quali la Spagna, l’Inghilterra e la Francia contrariamente a nazioni in ritardo quali l’Italia e la Germania.
Eppure, viene osservato, con la Grande Guerra lo Stato-Nazione può proiettarsi verso una gara imperiale, come dimostrato da Stati Uniti, Inghilterra, Francia e Russia, a cui lo spirito italiano deve votarsi indirizzando a questo obiettivo tutti i valori politici e i mezzi militari, economici, sociali, culturali e religiosi la cui efficacia può essere garantita sola dalla “restaurazione dell’autorità dello Stato, come volontà organizzata della potenza, e la disciplina interiore della nazione”.