L’idea dello Stato Nuovo e dell’imperialismo nell’azione politica e culturale del giurista del fascismo. Cavalcò le dottrine nazionaliste del suo tempo e concepì una struttura di dominio legalitario per la “gestione” della società. Nelle sue teorie i valori di gerarchia, autorità, socialità che “amministravano” organicamente la vita civile della nazione. Nulla al di fuori della Legge per l’armonizzazione di tutti gli interessi pubblici
UN UOMO IN UN’IDEOLOGIA, SOLO DOPO UNA BIOGRAFIA
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Ma non stiamo parlando di un’opera legislativa supinamente sottomessa ai dettami del nuovo corso mussoliniano. La specificità di Alfredo Rocco è aver importato un pensiero complesso quale il rocchismo nella fase di edificazione della “nuova Italia” fascista. Lo si evince nelle premesse di quanto dichiarò egli stesso al Senato nel dicembre 1925: “In Italia è avvenuto qualcosa di molto grave e di molto decisivo. Un mutamento di regime, quindi non solo di metodo di governo, ma di mentalità, di spirito politico, di concezione dello Stato. L’intendimento che ha mosso il governo a proporr e tutta questa serie di riforme legislative è, principalmente, quello di costruire una nuova legalità per rientrare nella legalità”. R. De Felice, Mussolini il fascista, l’organizzazione dello Stato fascista 1925-1929, p.162.
“Una nuova legalità per rientrare nella legalità”, non un gioco di parole ma l’essenza della visione personale del giurista che traiamo proprio dall’interpretazione del De Felice: “nel richiamo vi era una sorta di sdegnoso rifiuto di dissimulare o negare l’illegalismo fascista dei primi anni, dietro di esso si intuisce anche la preoccupazione non solo di legalizzare questo illegalismo ma soprattutto di mettere al sicuro da ogni velleità rivoluzionaria fascista il nuovo Stato, il nuovo ordine.
E che questa non sia solo una nostra impressione ci pare confermato dallo spirito e dalla lettera della legge 24 dicembre 1925 sulle attribuzioni e prerogative del capo del governo, che più di un fascista considerò un abilissimo espediente di Rocco e del conservatorismo italiano per impedire che l’esecutivo (cioè in pratica Mussolini) si rafforzasse non solo a danno delle istituzioni parlamentari ma anche a danno della Corona, le cui prerogative la legge ribadì esplicitamente – che il governo del Re è emanazione del potere regio e non già del Parlamento e deve godere la fiducia del Re”. R. De Felice, Cit., pp.166-67.
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Riconfermato deputato nella XXVII legislatura fu eletto, il 27 maggio 1924, Presidente della Camera restando in carica fino al 5 gennaio 1925, quando divenne ministro di Grazia e Giustizia. Da quel momento sino al 1932 la sua attività si concretizzò nell’impianto di leggi e provvedimenti brevemente sopra descritti. In particolare, legò il suo nome, con effetti ancora attuali, alla codificazione penale del fascismo ispirata ad un sistema di perfezione tecnica e repressione di ogni attività politicamente rilevante nei confronti del regime dittatoriale. Con la nomina a senatore nel 1934 si poté dire conclusa la sua opera.
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PREMESSA PER UN MATTATORE TRA NAZIONALISMO E IMPERIALISMO
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Dapprima in Gran Bretagna l’imperialismo sembrò un rimedio per superare il sempre più inequivocabile declino che la supremazia industriale e commerciale andava manifestando. Gradatamente, al posto della vecchia concezione puramente economica dell’impero si impose un imperialismo mirato essenzialmente all’estensione e alla forza militare. In altre parole non era più sufficiente guidare i mercati o la borsa, ma diventava necessario impossessarsi delle materie prime e del potere politico.
Infatti, dai primi nuclei nazionalisti italiani l’imperialismo contemporaneo veniva visto come una realtà progressiva alle cui regole del gioco sarebbe stato autolesionistico sottrarsi. Esso appariva, anzi, uno stimolo insostituibile al rinnovamento interno della nazione e nello stesso tempo era presentata come una “formidabile lezione ideologica da cui poter ricavare una smentita ed una confutazione inappellabile dei miti democratico-progressisti e delle convenzioni ipocrite delle maggioranze parlamentari”. La rivista fiorentina Il Regno, del 1903, trasse spunto da questa impostazione per fornire suggerimenti essenzialmente pedagogici alla nazione italiana, più specificamente alla classe dirigente borghese cui spettava l’attuazione di una decisa politica di affermazione nazionale. In particolare l’espansionismo, oltre che come strumento per la conquista di risorse e spazi, era considerato soprattutto un impulso formidabile per il rinnovamento interno del Paese.
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Furono le teorie di Corr adini a diventare un faro per il nazionalismo italiano e lo stesso Rocco. Egli sottolineava la necessità assoluta, per l’Italia, di impegnarsi in un espansionismo di tipo militare, non avendo una forza elevata in industria e commerci. Attribuiva una grande importanza ai fattori politici, militari e terr itoriali che stavano all’origine delle maggiori economie capitalistiche. Riteneva indispensabile, pertanto, che “la borghesia di governo” creasse i presupposti per l’ulteriore sviluppo dell’economia; anche attraverso una reazione contro la lotta di classe disegnando i contorni di una nuova nazione pacificata all’interno e competitiva all’esterno. Sotto la sua guida il nazionalismo italiano arr ivò all’assise fiorentina del 1910 in cui, con la relazione su Classi proletarie: Socialismo, nazioni proletarie, egli offrì la prima carta ideologica al movimento quale mezzo per l’Italia di apprendere il valore della lotta internazionale così come il socialismo insegnava al proletariato il valore della lotta di classe.
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Così al congresso di Roma del 1912 trionfò la netta opposizione al Partito Socialista, ai clericali ed alla classe dirigente liberale “rei di aver ridotto gli interessi della nazione appiattendola sulle lenti paludi del compromesso giolittiano, portando in sé i germi dell’individualismo e dell’anarchia”. Si delineò pertanto la funzione sovversiva della nuova ideologia che diventerà via via antidemocratica e antiparlamentarista. La volontà di combattere per la nuova Italia aprì, tra l’altro, il complesso dibattito sullo “Stato Nuovo” che Rocco cercò invano di realizzare a causa delle necessità di compromesso con il regime fascista che indebolì fortemente la sua vena idealista. Pertanto, il nazionalismo, alla vigilia della I Guerr a Mondiale, si presentò con una struttura ben diffusa – soprattutto al Nord – e con un supporto di stampa capillare: Regno, L’Idea Nazionale, La Voce e tante altre piccole riviste.
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ROCCO E LA TEORIA DELLA SOCIETÀ ORGANICA REGOLATA DAL “SUPER-STATO”
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In sintesi delineò gli elementi fondamentali della sua dottrina che divenne presto ufficiale per tutti i nazionalisti: “Un duro autoritarismo alla prussiana e una stretta integrazione, sempre alla tedesca, tra apparato statale e cartelli industriali, con la filosofia positivistica dell’organicismo sociale, dove i capi dell’economia si trasfigurano in organi di interesse nazionale, le masse trovano nei sindacati misti, o corporazioni, non l’assurda uguaglianza ma la disciplina delle differenze”. R. De Felice, Cit., p.165.
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Sostanzialmente il giurista intravide la possibilità di inquadrare secondo i valori di gerarchia, autorità e socialità la cosiddetta società organica. Nel mezzo interveniva ad operare la Magistratura del lavoro come “giurisdizione di equità”. In particolare Rocco leggeva nelle corporazioni il processo secondo il quale lo Stato rinnovava contro i sindacati, ribelli alla sua autorità, una serrata lotta di supremazia non attraverso un incremento dell’apparato repressivo, bensì attuando una teoria reazionaria basata sulla ricerca ossessiva di uno sforzo di compattezza che non escludeva concessioni economiche alla categorie organizzate garantendosene il controllo e riconoscendole come figure di diritto pubblico. Insomma una trasformazione di questi soggetti “in enti autarchici” o “organi tecnici per l’esercizio di determinate funzioni nel campo del lavoro”.
In questo modo Rocco pensò allo Stato come ad una struttura granitica contemplante un vincolo di solidarietà tra tutte le sue élite: imprese, sindacato, partito, ecc. non lasciando nulla al di fuori del sistema. Più chiaramente egli cercò di aprire la strada allo Stato totalitario inserendo nella sua compagine, cioè entro strutture amministrative, l’intera vita civile della nazione. In un certo senso, questo percorso era simile a quello della Chiesa cattolica della controriforma: democratica nella base di reclutamento quanto assoluta nella struttura di comando, che dal suo tronco centrale vedeva partire una varia ed infinita molteplicità di istituzioni religiose e laiche destinate a garantire un quotidiano, intenso e sistematico collegamento con le masse senza porr e in forse la più rigida unità di direttive d’azione.
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TUTTO – UOMINI E COSE – NELLO STATO… ANTICOMUNISTA
Rocco pensava proprio a questo quando intendeva effettuare nella compagine statale l’armonizzazione degli interessi degli industriali e dei lavoratori per la realizzazione della pace sociale e della solidarietà nazionale, in vista del rafforzamento della competizione internazionale. Quindi bisognava allargare l’impresa a tutto il terr itorio dello Stato con la rappresentanza di un sindacato unitario che evitasse concorr enze interne e, riunendo proprio industriali e lavoratori, racchiudesse il compito della produzione e della distribuzione. In pratica, era come applicare una perenne legislazione di guerr a che, dietro la disciplinata irr eggimentazione dell’esercito del lavoro, puntasse ad una radicale unificazione del corpo sociale. Tutto questo rappresentava il passaggio da un sistema di economia associata ad un sistema di economia organizzata dall’alto. Dunque, il motto mussoliniano “tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato” prese forma proprio con Rocco.
Ciò era evidente soprattutto quando poneva il problema di una nuova definizione del rapporto fra libertà individuale ed autorità dello Stato negando la prima come diritto naturale e ritenendola, invece, una concessione dello Stato fatta nel proprio interesse. Ma lo Stato era tale solo se ristabiliva la sua autorità e sovranità che i governi liberali e il giolittismo “hanno spezzato esponendolo all’assalto di una moltitudine di aggregati privati e sovversivi in lotta tra loro”.
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IL RUOLO DELLE POLITICHE E L’IDEOLOGIA NAZIONALISTA DI GUERRA
Con una simile convinzione la politica estera diventava la politica per eccellenza. La politica interna doveva restaurare l’idea dello Stato come volontà organizzata nella potenza ed assicurare la salda coesione e la disciplina interiore della nazione. La politica militare doveva preparare ed allenarne la forza diretta. La politica economica favorirne, svilupparne e proteggerne la produzione e gli scambi, difenderli sul mercato interno ed aiutarli alla conquista dei mercati esteri, facendone garanzia di indipendenza e strumento di espansione. La politica sociale doveva sostituire alla lotta di classe nella solidarietà internazionale la solidarietà delle classi nella lotta internazionale, di cui lo strumento più perfetto veniva incarnato dal sindacato. La politica culturale doveva rendere consapevole la nazione del proprio genio, della propria tradizione, della necessità di difenderli e farli prevalere nella civiltà mondiale. La politica religiosa doveva costruire l’unità spirituale della nazione per tramutarla in forza di coesione interna e di “esterna espressione”.
Tutto ciò presupponeva un’ideologia di guerr a ma il bellicismo nazionalista non era considerato una follia, bensì “previdenza e preparazione a render vittoriose le immancabili guerr e future” per il buon esito delle quali spiegò Rocco stesso: “non è necessario intensificare soltanto la preparazione militare, ma bisogna realizzare la consolidazione sociale interna mediante la creazione di una coscienza nazionale. Bisogna aumentare la ricchezza intensificando la produzione, elevare economicamente e moralmente le classi lavoratrici”.
Nulla di generico nel programma nazionalista essenzialmente diverso dal patriottismo e non un indistinto preoccuparsi del benessere della nazione: in questa veste era attaccamento alla patria, alla razza e alla sua affermazione. Nazionalismo progressivo ed espansivo, esclusivo ed esclusivista, non assolutista, antisemita o clericale ma protesta, rivolta, anatema contro tutta “una secolare incrostazione di idee che ha deformato, contorto l’anima italiana. Il nazionalismo si rivolge contro tutti gli ideali del foro e della piazza, contro tutte le idee corr enti e dominanti sui cervelli volgari, attacca la democrazia, demolisce l’anticlericalismo, combatte il socialismo, il pacifismo, l’umanitarismo, l’internazionalismo, la massoneria. È rivoluzione e non può convenire agli scettici e ai timidi”.
Rocco chiarì a chi gli obiettava che ormai non restava più nulla da conquistare che “le nazioni forti e progressive non conquistano terr itori liberi, ma terr itori occupati dalle nazioni in decadenza”. Si riferiva senza mezzi termini a Francia, Inghilterr a, Austria asburgica, “in declino a causa della loro scarsa prolificità alle quali l’Italia oppone la sua potenza demografica”. Espose così i veri obiettivi della politica espansionistica italiana: l’egemonia nel Mediterr aneo contro l’imperialismo francese in Africa del Nord ed il controllo dell’Adriatico contro il dominio austriaco nei Balcani.
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Rocco non temeva di rinnegare nella sostanza la concezione della “nazione proletaria”, ma riteneva opportuno risolvere gradualmente la questione sul fronte adriatico per poi ricostruire un’amicizia italo-tedesca – perché anche la Germania era considerata nazione prolifica, espansiva e proletaria – contro Francia ed Inghilterr a. Erano evidenti a chiare lettere le rivendicazioni mediterr anee nei confronti della rivale Transalpina da parte del regime fascista: Corsica, Tunisia, Africa Settentrionale. Con il fascismo Rocco pensò di trovare la risposta vincente “nel duello millenario fra lo Stato e gli individui, fra il principio dell’organizzazione contro quello della disgregazione”.
Alcune delle maggiori preoccupazioni dello Stato dovevano essere la cura del benessere fisiologico delle masse e la loro educazione, tutto incentrato sulle esigenze massime della produzione. Congegnata in questo modo la struttura statale, nella sua compattezza ed immutabile unità interna, Rocco concepiva l’uomo come un piccolo meccanismo di un sistema perfettamente organizzato. Per tali ragioni egli fu, quale ministro della Giustizia del regime, l’artefice di tutti gli istituti politici della dittatura anche legittimando machiavellicamente la prassi extralegale e diventando, così, uno dei più formidabili antagonisti della “società aperta” dei nostri tempi.
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