Statista,
innovatore, stratega, conquistatore. Uccide e unifica la Grecia delle pòleis
per proiettarla nel mondo. Solo una morte precoce gli strappa l'eternità
ottenuta dal figlio. Tra una chiara visione politica e un puro sogno di gloria
chi è il vero Magno della storia?
CHE I MERITI DEI PADRI RICADANO SUI FIGLI
Conquistare ed unire una Grecia ormai in
declino per il suo cronico autonomismo distruttivo; annientare il vastissimo,
multinazionale ma decadente impero Persiano e fare della piccola, periferica
Macedonia il fulcro di un nuovo corso della storia. Questa la lucida visione di
Filippo II, re di Macedonia tra il
359 e il 336 a.C., in un misto potente e vincente di abili doti diplomatiche apprese
nell’esilio giovanile di Tebe, la polis
sempre rivale di Atene e Sparta, e formidabili innovazioni militari come la falange macedone, la più straordinaria
macchina da guerra del mondo antico prima delle legioni romane. Ristabilire la
giusta memoria su questa figura è fondamentale per comprendere meglio la fama
eterna conquistata dal suo erede: senza l’impalcatura costruita da Filippo II
sarebbe davvero esistito suo figlio Alessandro
Magno? Qual è la differenza e in cosa si completano? È presto detto, la
storia dimostra che il più grande risultato della loro esistenza, ovvero l’estensione
ad Oriente del mondo ellenico in poco più di 35 anni, deriva dall’incontenibile
fusione tra i concreti disegni strategico-politici del primo e dal puro sogno
di gloria del secondo. Ma per rendere onore alla storia stessa, è necessario
inquadrare nella migliore ottica l’eredità lasciata dal padre per rileggere
l’effettiva parabola del figlio come conquistatore-modello di ogni tempo. L’epopea
di questi due leggendari e contrastanti personaggi assume contorni ancora più
sensazionali se pensiamo a cos’era a quel tempo la Macedonia nel mondo greco,
culla della civiltà occidentale a partire dal 1400 a.C.: “Probabilmente la
maggior parte dei greci ignoravano perfino l’esistenza della loro più settentrionale
provincia, la Macedonia… Le città-stato del sud avevano scarsissimi rapporti
con quei lontani parenti del nord, che, sebbene parlassero la loro stessa
lingua o pressappoco, non le avevano dato né un poeta, né un filosofo, né un
legislatore… Erano sparpagliate tribù di pastori che vivevano in regime
patriarcale, attruppate ciascuna intorno al proprio signorotto. La loro
evoluzione politica non aveva affatto seguito quella della Grecia, era rimasta
medievale. C’era un re, ma il suo potere era limitato da quello di ottocento
vassalli, ciascuno dei quali, nella propria circoscrizione, si sentiva padrone
assoluto e non ammetteva interferenze. Essi non andavano che di rado e
malvolentieri a Pella, la capitale, che infatti era rimasta un agglomerato di
capanne intorno all’unica piazza: quella del mercato”. I. Montanelli, Storia dei Greci, p.254.
Una Macedonia che si riduce a minuscolo
puntino geografico se osservata in un quadrante più vasto di territori e regni
già protagonisti, tanto da poterla definire “una folgore che fece irruzione
sullo scenario del mondo antico in uno scacchiere, quello
eurasiatico/mediterraneo, che dopo la metà del millennio precedente l’era
volgare era andato consolidandosi in quattro poli politico militari destinati,
in maggiore o minore misura, a divenire imperi. Più a occidente, alla metà del
millennio, dopo due secoli e mezzo di vita, Roma si era appena sbarazzata dei
suoi sovrani etruschi e iniziava la sua espansione nel Lazio prima, nella
penisola italica successivamente. Di fronte a essa, nel meridione, Cartagine,
già colonia fenicia di lunga data, con le sue ramificazioni commerciali e il
possesso dei territori, come la Spagna, ricchi di risorse economiche, poneva a
sua volta le basi per un’espansione della sua area di controllo che l’avrebbe
inevitabilmente fatta entrare in collisione con l’Urbe. Nel settore orientale,
altri due colossi si disputavano una posizione di preminenza, dando luogo, nei
secoli, a una disputa perfino più estesa nel tempo di quella tra punici e
capitolini. Si trattava dei greci, la cui espansione si era estesa ben oltre la
penisola ellenica, fino alle coste dell’Italia meridionale a ovest e lungo
quelle dell’Asia Minore a est, e i persiani, il cui impero, nel corso del
tempo, si era esteso in modo abnorme, dalle coste dell’Asia Minore, a
occidente, fino all’Indo, ad oriente, inglobando, anche a sud, una parte del
continente africano, ovvero l’Egitto”. A. Frediani, Le grandi battaglie di Alessandro Magno, p.27.
IL CAPOLAVORO DELLA FALANGE MACEDONE
Filippo II, alla morte del padre Aminta III sconfitto dagli Illiri, si
ritrova ostaggio dei vincitori a seguito di un trattato. Inizia una serie di
vicissitudini che lo porteranno fino a Tebe dove apprende la lingua, i costumi,
la politica e soprattutto le arti militari al seguito di Epaminonda, celeberrimo generale tebano e vincitore degli spartani a
Leuttra con l’impiego del Battaglione
Sacro, élite dell’esercito, costituito da 150 coppie di amanti dello stesso
sesso. È questa la miscela che eleva Filippo su ogni altro macedone del tempo,
che ne plasma la visione, la tattica e la strategia: unità del suo regno
all’interno e rafforzamento all’esterno per abbattere infine i Persiani. Una
volta asceso al trono si dedica alla profonda riorganizzazione dello Stato e
dell’esercito imponendosi quale grande innovatore per diventare la
principale rampa di lancio di una nuova concezione militare e precursore di
nuovi equilibri per i secoli successivi fino all’avvento di una Roma ben
intrisa, però, di influenza ellenica: “La creazione di un tipo di soldato in
cui si fondessero professionalità dei mercenari e la dedizione a una causa da
parte della milizia cittadina è stata dunque la più grande testimonianza del
genio di Filippo e della superiorità del suo combattente rispetto agli altri…
Una mente ricettiva e ambiziosa come la sua non poteva non fare propria la
lezione impartita ai contemporanei da Epaminonda, il primo a usare in modo
flessibile il blocco monolitico della falange, e a farne uso su scala ben più
ampia. Prima del predominio tebano, infatti, gli opliti greci marciavano in
file compatte e uniformi con le loro picche tese in avanti, con l’unico
obiettivo di rompere lo schieramento avversario all’impatto: non era lecito
pretendere manovre più sofisticate da una milizia richiamata alle armi nel
periodo estivo; anzi, operazioni più dinamiche erano addirittura proibite, in
quanto considerate nocive per la coesione delle formazioni e quindi per
l’efficacia della forza d’urto… Filippo, invece, che di elasticità mentale ne
aveva da vendere, non solo recepì la lezione di Epaminonda, ma la evolse
combinandola con l’apporto della cavalleria, di cui egli disponeva in misura
maggiore rispetto ai greci”. A. Frediani, Cit.,
pp.42-43.
È il capolavoro della falange macedone che
Filippo lascerà in dono al figlio per la sua travolgente cavalcata
conquistatrice: “Seppe creare un esercito professionale di stato in un’epoca in
cui, in Europa soprattutto, esistevano solo tre categorie di combattenti, e di
discutibile efficacia per giunta: milizie cittadine ansiose di salvare la pelle
e tornare al più presto alle famiglie e alle attività svolte come civili,
impacciate e assai poco professionali; mercenari altamente specializzati ma
privi di ideologia e di affezione nei confronti del comandante supremo, disponibili
a cambiar bandiera di fronte a una maggiore convenienza, montanari, pastori,
agricoltori, – era il caso specifico della Macedonia – sprovveduti e improvvisati
soldati, di regola paurosi e superficiali in battaglia… Fu in grado di andare
al di là del semplice concetto di esercito, che monopolizzava la mentalità di
gran parte dei condottieri dell’epoca antica, ampliandolo a quello di ‘forze
armate’, strutture composite che comprendevano non solo il binomio
fante-cavaliere – esso stesso una novità, in un’epoca in cui i comandanti
difficilmente li utilizzavano in modo complementare –, ma tutti gli altri
elementi che oggi si danno per scontati in un’armata, come il genio, gli
esploratori, le truppe leggere di copertura, i serventi, i reparti ossidionali”.
A. Frediani, Cit., pp. 10-11.
Così, Militarmente l’esercito greco diventa
il migliore del mondo: “L’oplita
pesantemente armato, il fante dotato di lancia, corazza e disciplina costituiva
il modello sul quale erano misurati gli altri soldati, e la falange di cui
faceva parte fu la formazione che dominò i campi di battaglia, fino a quando
venne adottata dall’impero romano e modificata nella coorte. In effetti, da questo momento in avanti, i Persiani si
servirono di soldati e formazioni greche, arruolando un gran numero di
mercenari per combattere le loro guerre in Asia. Con gli opliti, Filippo il
macedone controllò la Grecia, mentre suo figlio Alessandro costruì un impero
che raggiunse l’India”. P. K. Davis, Le
cento battaglie che hanno cambiato la storia, p.30.
FINE DELLA GRECIA ED ESTENSIONE DELLA CIVILTÀ ELLENICA
Provvisto di questo strumento invincibile e
dosando forza e astuzia, Filippo inizia a puntellare il suo regno per arrivare,
col tempo, ad una monarchia unitaria della Grecia e sferrare l’attacco
definitivo ai Persiani. I primi nemici a cadere, in un periodo di grande
instabilità che continua a vedere le pòleis
greche sempre in lotta tra loro, tra il 359 e il 348 a.C., sono gli
Illiri nei Balcani, la Tessaglia ad Ovest e la città di Olinto che gli aprono
la strada all’oro della Tracia e al controllo dell’alto Egeo. Il peso di queste
vittorie e la situazione precaria di Atene dal punto di vista economico e militare
consentono a Filippo di entrare a pieno titolo nel Congresso Anfizionico, una
specie di Onu greca, in cui fa sentire tutta la sua influenza in attesa della
resa dei conti con Atene rappresentata in una tensione crescente dall’oratore Demostene, autore delle famose ed infuocate
Filippiche. La miccia finale si accende
da un contrasto apparentemente marginale tra Atene e gli abitanti di Anfissa su
presunti sacrilegi religiosi: “Anfissa era una delle città che guardava con
favore a Filippo, in molti lo consideravano un capo che avrebbe potuto
unificare la Grecia contro quello che vedevano come il vero nemico, la Persia…
Demostene si accorse che Tebe non era in buoni rapporti con i Macedoni, e
costituiva quindi un potenziale alleato che non sarebbe stato saggio
irritare... Tanto Filippo che Demostene capirono che la resa dei conti era
inevitabile. Dal 399 si discuteva se in questa disputa Filippo stesse
corrompendo personaggi chiave, o se Demostene, stesse prendendo tangenti da
Anfissa. Qualunque cosa avvenisse tra le quinte, l’esercito macedone si
preparava a marciare sulla Grecia, vuoi per applicare le misure decise dal
Congresso anfizionico contro Anfissa, vuoi per aiutare questa e i Locresi
contro un simile attacco guidato da Atene. Quando Filippo entrò con i suoi
nella Grecia centrale, nel settembre del 339, Tebe dovette decidere quale
fosse, tra i Macedoni e Atene, l’alleato che più le conveniva: una convincente
orazione di Demostene fece sì che l’assemblea tebana votasse a favore di un
accordo con gli Ateniesi contro l’invasore. Demostene permise il totale
coinvolgimento della flotta ateniese, il conferimento a Tebe del comando delle
forze congiunte di terra e il pagamento di due terzi delle spese di guerra”. P.
K. Davis, Cit., pp.44-45.
Sulla battaglia di Cheronea, in Beozia, nel
338 a.C. non si hanno molti dettagli: in numero le forze impegnate
sembrerebbero essere state di pari entità; merita in ogni caso di essere
annoverata tra i conflitti centrali della storia perché la vittoria di Filippo segna
la fine dell’indipendenza greca e il lancio del figlio Alessandro tra i massimi
conquistatori della storia: “Tra i tanti fattori che contribuiscono a fare di
Cheronea uno degli scontri determinanti della storia occidentale è anche la
presenza, attestata per la prima volta in battaglia, se pur con un ruolo di
comandante subalterno, del più grande conquistatore della Storia: Alessandro
Magno. Il figlio del re aveva allora diciotto anni, e comandava l’ala sinistra,
cui Filippo si trovò costretto ad affidare il ruolo più dinamico. Il sovrano
aveva avuto quel figlio smanioso, ambizioso e vivace dalla quarta moglie Olimpiade, la sorella del re
dell’Epiro, il cui volitivo, orgoglioso e appassionato carattere molto
influenzava quello del ragazzo… Tornando a Cheronea, dobbiamo supporre che i
due eserciti avversari si equivalessero in termini numerici. Le cifre dei
macedoni sono certe: 30.000 fanti e 2000 cavalieri; quelle greche, al
contrario, fluttuano da un’entità maggiore a una minore, e questo ci induce a
credere, facendo una media, che la composita armata greca non si discostasse molto
da quella avversaria. Ciò dava già un netto vantaggio a Filippo, la qualità dei
cui effettivi era di gran lunga superiore, come d’altronde quella dei
comandanti subalterni, sui quali spiccava più di ogni altro Parmenione… Era stato uno scontro tra
soldati dilettanti e professionisti: tra un comando parcellizzato e
centralizzato; tra un’entità geopolitica in ascesa e altre in declino; tra un
uomo politico con una chiara visione d’insieme e tanti altri capi, politici e
militari, tenacemente abbarbicati al loro spirito campanile”. A. Frediani, Cit., pp.54-57.
Un trionfo che Filippo non disperde in un prevedibile
delirio di onnipotenza, la diplomazia alberga sempre in lui per la capacità di
mirare al risultato successivo, tenendosi le spalle coperte e conferendo
all’unità del suo sistema un valore assoluto. Il suo sguardo è rivolto ai
Persiani e per questo prepara il terreno restando magnanimo nella vittoria con
i Greci: “Rimise in libertà i duemila prigionieri che aveva catturato e mandò
ad Atene, come messi di pace, il figlio diciottenne Alessandro, che si era
coperto di gloria a Cheronea come generale di cavalleria, e il più accorto dei
suoi luogotenenti, Antipatro. Il diktat era estremamente generoso: Filippo
chiedeva soltanto che gli venisse riconosciuto il comando di tutte le forze
militari greche contro il comune nemico persiano. Gli ateniesi, che si
aspettavano di peggio, acclamarono in lui un nuovo Agamennone. E alla conferenza di Corinto tutti gli stati che vi
mandarono i loro rappresentanti, meno Sparta, accettarono di riunirsi in una
confederazione ricalcata su quella beota, impegnandosi a darle i loro
contingenti militari e a rinunziare alle rivoluzioni. Ve li spinse finalmente
un bisogno di unità? Forse qualcuno lo avvertiva. Ma la maggior parte speravano
soltanto che il nuovo padrone s’imbarcasse al più presto nell’avventura
persiana e possibilmente non ne tornasse”. I. Montanelli, Cit., p.259.
Vana o meno questa speranza, la certezza
storica in quel momento è che la Grecia delle pòleis, dell’indipendentismo più minuscolo a tutti i costi, è morta.
Ora ha in Filippo un padrone e unificatore che già prepara la sua mossa finale,
ma come un ennesimo Mosè della
storia non vedrà la sua terra promessa morendo, in modo tragico quanto banale,
per mano traditrice di una sua guardia del corpo, Pausania di
Orestide: le ragioni starebbero in rancori
personali o addirittura nel coinvolgimento dello stesso Alessandro e della
madre per i più svariati motivi dinastici, essendosi Filippo impegnato in
diverse procreazioni su cui puntare per la successione. Considerando la pagina
leggendaria che con la sua morte sta per aprirsi, dovremmo parlare di Filippo
come di un glorioso incompiuto? Nel tentativo di una risposta o quantomeno di
un ragionamento di buon senso, dopo aver tracciato il profilo da statista e
guerriero, va ricordato il contributo di Filippo alla formazione di Alessandro
e la reale eredità con cui il futuro conquistatore si consegna all’eternità.
DAVVERO
MAGNO ALESSANDRO SENZA FILIPPO ???
Probabilmente, viste le premesse, senza la
sua morte prematura Filippo avrebbe raggiunto altri straordinari risultati;
forse gli stessi di Alessandro ma condendoli di politica e strategia più che di
un’irrefrenabile ambizione al dominio sugli spazi infiniti peculiare nel figlio,
morto altrettanto precocemente insieme alla sua stessa opera. La fine di
Alessandro sarà lo smembramento dell’impero ellenico in un arcipelago di regni e
satrapie. In ogni caso pur sempre una folgorante e ineguagliata parabola la cui
architettura principale si deve a Filippo che non trascura la formazione del
figlio sin da bambino, affidandolo ai migliori maestri del tempo, per farne un
leader completo, tra cui Aristotele.
Certamente l’avventura e le vittorie di
Alessandro diventano un modello di imitazione, un’aspirazione massima per tutti
i conquistatori successivi. Non c’è dubbio che per questo primato vi sia il
concorso di vari fattori: “In linea di massima, i successi di un generale si
devono ascrivere in misura variabile, ai suoi meriti quanto ai demeriti degli
avversari; ma per il caso specifico di Alessandro entra in gioco un terzo
elemento: i meriti del suo predecessore… È lecito ritenere che solo la sua
morte precoce abbia precluso a Filippo II un posto tra i più grandi
conquistatori e generali della Storia: i suoi obiettivi, forse erano meno
ambiziosi di quelli di Alessandro, ma andavano certamente al di là di quello,
già rimarchevole, di aver unificato pressoché l’intera penisola ellenica. E poi,
lo straordinario esercito con cui Alessandro vinse tutte le battaglie lo aveva
forgiato lui, quasi dal nulla, consegnando al figlio uno strumento di un’efficacia
bellica senza pari a quell’epoca, pieno di innovazioni e tratti originali che
solo in parte traevano spunto dalle migliori menti militari prodotte dalla
storia più recente della Grecia”. A. Frediani, Cit., p.10.
Il primo risultato di questo patrimonio di
forze nelle mani di Alessandro sarà, nel 331 a.C., la vittoria sui Persiani a Gaugamela
e da lì il passaggio della conquista greca tra Caucaso, Afghanistan, India nord-occidentale,
Iraq. Voleva insomma riunire Asia ed Europa in un unico vero reame?: “Alessandro
è uno dei personaggi che più hanno solleticato la fantasia di biografi e
romanzieri, ognuno dei quali ha finito col prestargli le proprie idee e intenzioni…
Alessandro non sapeva cosa fosse l’Asia per il semplice motivo che a quei tempi
non lo sapeva nessuno. E se lo avesse saputo, non credo si sarebbe proposto di
conquistarla e di tenerla soggetta con ventitremila uomini. In quel momento non
era così pazzo da concepire un simile disegno… Credo che tutte le intenzioni
che gli sono state imprestate siano senza fondamento. Esse non si possono
riportare a un’idea politica, come nel caso di Filippo, che sapeva
perfettamente quel che voleva. Alessandro non seguì un piano: inseguì una
chimera e, più che artefice ci appare lo schiavo di un destino… Quello che
trasse Alessandro contro l’Asia non fu un piano né strategico né politico. Fu un
sogno di gloria dietro il quale corse undici anni, senza risvegli… Forse
proprio per questo interpretò e concluse nel modo più adeguato possibile il
ciclo di una civiltà come quella greca, condannata dalla sue forze centrifughe a
morire per dispersione”. I. Montanelli, Cit.,
pp.264, 269.
È pur vero che una storia fatta con i se… non consente alcun risultato
assoluto, così il giudizio non può che restar sospeso, ma non scontato come da vulgata ufficiale, sulla base degli elementi
di cui si dispone. È oggettivo che Alessandro non avrebbe potuto darsi alla
conquista senza il retroterra seminato dal padre, ma è altrettanto vero che il
giovane macedone resta un condottiero ineguagliato. In una visione d’insieme
delle due figure il risultato è epocale: “Atene, Sparta e Tebe avevano lottato
per l’egemonia locale; Atene fu quella che più si avvicinò a quello che chiamava
impero, ma, tutto sommato, si trattava di colonie destinate ad avvantaggiare la
madrepatria Filippo e Alessandro, unificando la Grecia sotto il loro controllo,
portarono i Greci assai più lontano di quanto sarebbe mai riuscita a fare da
sola una qualsiasi città-stato. D’altro canto, le città-stato greche non
esercitavano più alcun vero potere politico. Sin dall’inizio del V secolo a.C.,
esse erano state la principale potenza economica del Mediterraneo; dal 338 in
poi, rimasero sotto il tallone di qualcun altro, Macedoni o Romani, per quasi
mille anni”. P. K. Davis, Cit., p.47.