Storia minima dei 2
paradossi di uomini illustri e regole severe che fondano Roma repubblicana e,
tramandando i propri geni e le proprie faziose suggestioni, ne decretano la
fine
ABBASSO IL RE, NASCE
LA REPUBBLICA
Una strana beffa della storia, o forse in
questo caso della leggenda, lega la nascita e la morte dell’antica Repubblica
di Roma a discendenze di sangue e provvedimenti legislativi posti contro il
ritorno della monarchia che, invece, alla fine condurranno ad un impero
autocratico. In questo paradosso si svolge l’esperienza di Publio Valerio Publicola, politico e militare romano, vissuto tra
il 560 e il 503 a.C., tra i protagonisti della cacciata dei Tarquini dalla
città – colpevoli di un accentuato dispotismo tirannico – che chiude la fase
dei sette re e, appunto, costruisce le fondamenta della nuova Repubblica. Siamo
infatti nel 509 a.C. e tutto nasce nel momento critico della messa al bando di Tarquinio il Superbo, responsabile di
un governo ormai osteggiato da tutti: “In particolare imperversava sui patrizi
e sui senatori cercando, in questo modo, di fargli capire che non aveva bisogno
del loro consenso per governare. Pretesa rischiosa perché era destinata a
diventare la vera ragione politica della fine della monarchia… Per ribadire
nella mente dei sudditi il concetto secondo cui il suo potere perveniva
direttamente da Giove, Tarquinio si affrettò a completare e a dedicare il
tempio del dio sul Campidoglio…”. G. Antonelli, Gli uomini che fecero grande Roma antica, pp.28-29.
Secondo la leggenda la monarchia finisce
come effetto di una ribellione ma è pur vero che, a poco a poco, la stessa
struttura monarchica ha perso i suoi poteri effettivi lasciandoli nella
competenza dei magistrati annuali: “Che per quanto sia ricamata con
particolarità poetiche e ridotta a leggenda la storia della cacciata
dell’ultimo Tarquinio, non può certo muoversi alcun dubbio ragionevole sulla
sostanza di questo fatto… Avere cioè il re omesso d’interpellare il senato e di
mantenerlo in numero; avere pronunciate pene di morte e di confische senza
consultare i senatori; avere ammassato nei suoi granai immense provvigioni di cereali
ed imposto ai cittadini oltre ogni giusto limite carichi di milizia e di
servigi manuali… Coll’ultimo re fu bandita tutta la sua famiglia, prova dello
strettissimo vincolo che allora teneva ancora insieme i consorzi gentilizi. La
schiatta dei Tarquini si trasferì a Cere, forse l’antica loro patria ove
recentemente fu scoperta la loro tomba. In luogo della signorìa d’un uomo
eletto a vita si misero poi a capo del comune romano due signori annuali”. T.
Mommsen, Storia di Roma, Vol. II, p.12.
Così inizia per Roma un periodo di grandi
cambiamenti istituzionali e politici in cui emerge la figura di Publicola in
stretta collaborazione con il ben più famoso Lucio Giunio Bruto, comandante delle truppe contro Tarquinio e
fondatore della Repubblica. Giurata fedeltà al nuovo governo, Publicola si
impegna a renderlo stabile, scoprendo e debellando una congiura ordita dai
Tarquini per tentare di riprendersi il trono. Da questo momento si fa
sostenitore di leggi a sostegno delle libertà popolari e della giustizia
sociale come la Provocatio, in base
alla quale si concede all’accusato il diritto di appello al popolo per
trasformare un’eventuale sentenza di pena capitale in altro giudizio. Contribuisce a convocare un grande comizio
centuriato “cui presero parte tutti i cittadini-soldato che proclamarono
definitivamente seppellita la monarchia, le attribuirono la responsabilità di
tutti gli errori e i soprusi di cui si era macchiata l’amministrazione della
cosa pubblica in quei primi due secoli e mezzo di vita; e al posto del re
nominarono due consoli, scegliendoli nelle persone dei protagonisti della
rivoluzione”. I. Montanelli, Storia
d’Italia 1: Dalla fondazione di Roma alla distruzione di Cartagine, p.61.
Con la riforma costituzionale si apre la
strada al nuovo potere consolare e al principio di collegialità. In realtà “il
potere regio non fu affatto abolito, e ne abbiamo una prova nel fatto, che
durante la vacanza, tanto prima che dopo, si procedeva alla nomina d’un interrè; in luogo d’un re nominato a
vita, ve n’erano due annuali, che si chiamavano generali (praetores) o giudici (iudices)
od anche soltanto colleghi (consules)…
Il supremo potere non era deferito ad entrambi i consoli insieme, ma ciascuno
lo esercitava per proprio conto così pienamente, come se l’avesse tenuto ad
esercitare il re, e sebbene da principio le competenze fossero divise e un console
assumeva il comando dell’esercito, l’altro l’amministrazione della giustizia,
tale divisione non era in nessun modo obbligatoria avendo ciascuno la facoltà
d’ingerirsi legalmente in ogni tempo nelle attribuzioni dell’altro; in caso di
conflitto si ricorreva ad un turno misurato a mesi od a giorni. Solo là dove il
supremo potere si opponeva al supremo potere e l’un collega proibiva ciò che
l’altro comandava, le sentenze consolari si neutralizzavano… È ben vero che
nella Repubblica romana anche il re era soggetto e non superiore alla legge, ma
siccome giusta il concetto romano il supremo giudice non poteva esser citato
innanzi a se stesso, il re poteva ben sì commettere un delitto, giacché per
esso non v’era né tribunale né pena. Commettendo invece il console un omicidio
o un delitto d’alto tradimento verso la patria, esso era protetto dalla sua
carica finché essa durava; ma trascorso il suo termine era soggetto al
tribunale criminale ordinario come qualunque altro cittadino”. T. Mommsen, Cit.,
pp.13-15.
Nel corso della sua vita Publicola sarà
eletto Console per quattro volte e dall’alto di questa carica difenderà Roma dalla
spedizione di Porsenna, re di
Chiusi, in aiuto di Tarquinio il Superbo; poi ancora nella guerra contro i
Sabini per la quale gli viene tributato anche il trionfo.
ABBASSO
IL RE, MUORE LA REPUBBLICA
Da tutti questi primi passaggi deriva il
significato del suo soprannome Publicola, ovvero “amico del popolo” o anche “colui
che cura gli interessi del popolo”. Così tanto amico e interprete degli
umori popolari che afferra subito come stare al passo con i tempi, arrivando ad
approvare leggi che “comminavano la pena di morte per chiunque tentasse di
impadronirsi di una carica senza l’approvazione del popolo… E concedevano a
tutti il diritto di uccidere, anche senza processo, chi tentasse di farsi
proclamare re. Quest’ultima legge dimenticava però di precisare in base a quali
elementi si poteva attribuire a qualcuno quell’ambizione. E consentì al Senato,
negli anni che seguirono, di liberarsi di parecchi incomodi nemici additandoli,
appunto, come aspiranti-re”. I. Montanelli, Cit.,
p.62.
Sarà su quest’ultima contraddizione,
più che altro strumento di lotta politica e difesa di interessi particolaristici,
che si condenseranno i 2 paradossi storici e umani della fine della Repubblica
romana, a partire dalle Idi di marzo
nel 44 a.C.:
Caio
Giulio Cesare
sarà assassinato in una congiura al Senato in quanto aspirante-re, ma nient’altro
che fiero avversario degli ultimi residui dell’oligarchia aristocratica. L’ultima
pugnalata in difesa della “libertà repubblicana” tocca a Marco Giunio Bruto, discendente del fondatore Lucio Giunio Bruto. Dalla cacciata dei Tarquini, la somma di questi
due paradossi rappresenta la perfetta quadratura del cerchio di una legge
antimonarchica e una discendenza di sangue che sigilla a quasi 500 anni di
distanza la nascita e la morte della Repubblica, i fin dei conti per implosione
più che per le mire di potere di un presunto monarca senza corona. Un delitto quanto mai dannoso e, quindi, controproducente
giacché la nuova Roma già si intravede e Cesare ne agogna “una perfetta organizzazione
incrollabile… esclusivamente improntata, nei suoi intendimenti, ad una
progressiva rinascita di lavoro e di pace. A tale scopo egli aveva lottato e
moltissimo vinto. La Monarchia era finalmente sorta dalla Repubblica soppiantando
l’antica Oligarchia esclusivista; però la Nemesi non perdona ai mortali; la
mole della costruzione forzò la mano allo stesso artefice, ed il corso degli
avvenimenti deviò dal sentiero tracciatogli: fondata la nuova Monarchia nelle
sue forme esteriori oltre che nell’essenza dei suoi sentimenti, Cesare doveva
accorgersi di aver prodotto non già un capolavoro di pace, bensì una creatura
di guerra”. T. Mommsen, Caio Giulio
Cesare, p.8.
Tuttavia, è riconosciuto, che ancora vivente non ha in animo di sovvertire le istituzioni della Repubblica ma adeguare le necessità di conduzione dello Stato ai confini ormai raggiunti; difatti “nonostante le ripetute insinuazioni di ipocrisia, riservategli dagli storici che hanno teorizzato la sua consapevole pianificazione dell’ascesa al trono regale, siamo del parere che a mettersi una vera corona in testa Cesare non ha mai pensato seriamente. Voleva il potere sulla città ma non gli interessava la cornice che doveva consacrarlo con simboli monarchici, i quali avrebbero indispettito i suoi concittadini, tutti più o meno intimamente repubblicani. Anche l’aver accettato la nomina di dittatore a vita non è una prova in contrario. Per lui questa carica garantiva la continuità del potere, sottratta alle procedure defatiganti dei rinnovi annuali. E magari non è da escludere che abbia pensato di imitare Silla, dimettendosi quando si fosse convinto di aver concluso la sua avventura esistenziale, quando l’età e la stanchezza gli avrebbero annunciato che non aveva più la forza di continuare ad essere Cesare, quando cioè avrebbe dovuto smettere di conquistare nuovi paesi e ridursi a scrivere le sue memorie”. G. Antonelli, Giulio Cesare, p.206.
In ultima analisi, un delitto dannoso e controproducente perché nulla di tutto questo troverà spazio nella successiva sfida tra Cesare Ottaviano e Marco Antonio, che spiana definitivamente la strada al Principato e all’Impero passando sui corpi dei cesaricidi e della Repubblica.
Tuttavia, è riconosciuto, che ancora vivente non ha in animo di sovvertire le istituzioni della Repubblica ma adeguare le necessità di conduzione dello Stato ai confini ormai raggiunti; difatti “nonostante le ripetute insinuazioni di ipocrisia, riservategli dagli storici che hanno teorizzato la sua consapevole pianificazione dell’ascesa al trono regale, siamo del parere che a mettersi una vera corona in testa Cesare non ha mai pensato seriamente. Voleva il potere sulla città ma non gli interessava la cornice che doveva consacrarlo con simboli monarchici, i quali avrebbero indispettito i suoi concittadini, tutti più o meno intimamente repubblicani. Anche l’aver accettato la nomina di dittatore a vita non è una prova in contrario. Per lui questa carica garantiva la continuità del potere, sottratta alle procedure defatiganti dei rinnovi annuali. E magari non è da escludere che abbia pensato di imitare Silla, dimettendosi quando si fosse convinto di aver concluso la sua avventura esistenziale, quando l’età e la stanchezza gli avrebbero annunciato che non aveva più la forza di continuare ad essere Cesare, quando cioè avrebbe dovuto smettere di conquistare nuovi paesi e ridursi a scrivere le sue memorie”. G. Antonelli, Giulio Cesare, p.206.
In ultima analisi, un delitto dannoso e controproducente perché nulla di tutto questo troverà spazio nella successiva sfida tra Cesare Ottaviano e Marco Antonio, che spiana definitivamente la strada al Principato e all’Impero passando sui corpi dei cesaricidi e della Repubblica.