24 febbraio 2012

MAMELI – PATRIOTA E POETA, NON “SOL” CANTAUTOR

Sognò, scrisse, cantò, lottò, sanguinò, morì. Tutto questo in soli 21 anni. Storia di un vero italiano quando ancora l’Italia non c’era. Ben oltre le strofe immortali di un inno, il destino avventuroso e tragico di una figura tra le più famose del Risorgimento

IL RIVOLUZIONARIO CHE NON EBBE TEMPO PER L’UNIVERSITÀ
Goffredo Mameli nacque a Genova il 5 settembre 1827, primogenito di sei figli in una famiglia aristocratica e culturalmente elevata. Ciò favorì nel giovane una maggiore apertura mentale verso i nuovi ideali del Risorgimento che andavano affermandosi con vigore in quegli anni. E infatti venne presto conquistato dallo spirito patriottico rendendosi protagonista anche di memorabili gesta.
Questo fu possibile anche grazie all’avvocato Michel-Giuseppe Canale, poeta drammatico e novelliere, che ne seguì l’educazione. Canale del resto non era solo un amante delle lettere, ma soprattutto un agitatore che viveva in prima persona le questioni politico-insurrezionali del suo tempo “guadagnandosi” la pressione costante della polizia austriaca. Diventò così per Mameli un modello ideologico molto forte.
Dal 1842 Goffredo iniziò a frequentare la facoltà di Filosofia a Genova. Gli anni universitari, tuttavia furono segnati da continui cambi di corso perché interamente coinvolto dall’ambiente risorgimentale che lo circondava. Venne anche espulso per un anno dall’ateneo per diverbi con i professori di discipline giuridiche. Si appassionò via via alle discussioni sull’uguaglianza e sulla libertà. Affascinato dal senso patriottico dei suoi connazionali riuscì a coprire un ruolo centrale anche in alcune imprese leggendarie del tempo come nel caso dell’esposizione della bandiera tricolore in onore della temporanea cacciata degli austriaci nel 1846.
Insomma, la sua persistente discontinuità nel frequentare i corsi di studio lo portò ad abbandonare definitivamente l’università.

IN PRIMA FILA TRA I FUOCHI DEL RISORGIMENTO
E intanto il popolo celebrava con manifestazioni e cortei l’amnistia concessa da Pio IX, appena un mese dopo la sua elezione a Pontefice. Simbolo poi tradito di una progressiva apertura alle richieste liberali della società. Con quella concessione papale vennero scarcerati i condannati politici e in quell’anno (autunno 1847), in un’atmosfera colma di speranze, Mameli scrisse i suoi versi del Canto degl’Italiani. Ben presto si accorse che anche a causa della mancanza di compattezza dei fronti rivoluzionari – soprattutto tra i mazziniani – e della repressione austriaca, il sogno patriottico avrebbe faticato a realizzarsi. Si stava preparando il terreno della Prima Guerra d’Indipendenza (caratterizzata tra il 1848-49 da sollevazioni popolari spontanee a Milano, Venezia, Genova, Sicilia, Toscana e dal Piemonte contro l’Austria per espandersi nel Lombardo-Veneto), e Mameli promosse una spedizione con trecento volontari in aiuto dell’amico Nino Bixio al confine tra Piemonte e Lombardia. Quando Milano cadde Goffredo rientrò a Genova dove a settembre 1848 lo raggiunse Giuseppe Garibaldi per sviluppare un piano d’attacco nominandolo capitano. In questo frangente compose Canto di guerra, la poesia Milano e Venezia, e venne nominato direttore del “Diario del Popolo” in cui primeggiavano articoli per convincere gli italiani ad attaccare l’Austria.
        
A ROMA!!! UCCISO DA “FUOCO AMICO”
Alla fine del 1848 si spostò a Roma dove iniziò a collaborare al “Pallade” sostenendo il valore e la necessità di una Costituente nazionale. Il 9 febbraio 1849 fu proclamata la seconda Repubblica Romana – retta dal triumvirato composto da Giuseppe Mazzini, Carlo Armellini e Aurelio Saffi – dopo una rivolta interna nei territori dello Stato pontifico e l’estromissione di Pio IX. Immediati scoppiarono gli scontri con l’esercito francese entrato in Italia per rovesciare la Repubblica e Mameli si guadagnò da Garibaldi il grado di Capitano di Stato maggiore: “…Combatte al suo fianco. Il 30 aprile (l’epica giornata degli scontri a Villa Pamphili, al Casino dei Quattro Venti, al Vascello e a Villa Spada) si batte nella zona di porta san pancrazio; il 19 maggio a Palestrina e Velletri; il 3 giugno sul Gianicolo, dove rimane ferito alla gamba sinistra, vicino all’articolazione del ginocchio. Aveva voluto lasciare il posto di aiutante di Garibaldi, troppo protetto e al riparo, per battersi in prima linea… Ferito, Mameli, da un bersagliere lombardo, a cinque passi dalla scalinata del Casino dei Quattro Venti. Il calvario, lento e inesorabile, ha inizio, fra alti e bassi, in una sofferenza fisica che non mina il morale, come dimostrano le lettere, in particolare alla madre. Ferita apparentemente non grave, curata all’Ospedale della Trinità dei Pellegrini… Ma una scheggia dimenticata all’interno provocherà la cancrena, l’amputazione della gamba, la morte, il 6 luglio…”. G. Spadolini, Gli uomini che fecero l’Italia, p.146.

...Nel frattempo morì anche la Repubblica Romana.


                  (Armellini)                          (Mazzini)                                   (Saffi)


PAROLA DI GOFFREDO MAMELI

Da Pagine Politiche
- Ai popoli d’Italia -

 
“Il popolo della città di Genova, non ultimo per sacrifizii alla patria, a nessuno secondo in amarla, giacché si sente italiano per sangue, per affetti, per commerci, per tradizioni e sul marmo di Portoria, risolutamente giurava di volerla non profanata dallo straniero, libera e unità…”.

“L’onnipotenza del popolo in cinque giorni spezzava le catene tedesche del Ticino a Gorizia,; tutto cadeva eccetto Peschiera, Verona e Mantova dove s’intanava un esercito sbaragliato…”.

“Mentre gran parte d’Italia negli anni scorsi giaceva infiacchita, incatenata da governi dell’ozio, pur restava la bellissima e fiera milizia della provincia sarda, sua unica gioia e speranza, suo vanto…”.

- Fratelli, caricate i vostri fucili! –

“Che il soldato non dorma aspettando la pugna; ma affili la sua spada, e carichi il suo fucile, e si prepari a far fuoco. Perché gli uomini del governo vanno domandando se si dee mantener la pace, mentre non vi è pace. Per dio, l’uomo che ha il nemico nella sua casa e chiama questo la pace, e va domandando se si deve combattere, quello è l’ultimo degli uomini!”.
 
“Che quanti credono nei destini dell’Italia e della Democrazia, ascoltino la nostra parola. Ella è sacra perché è sacra la parola che sgorga dal cuore: fratelli, affilate le vostre spade, caricate i vostri fucili perché siamo alla vigilia della battaglia”.

- Insurrezione e Costituente –

“l’insurrezione accenna a voler chiamare un’altra volta in campo gli italiani. Con quale bandiera v’andranno? Cominceranno la guerra gridando Viva la Monarchia o Viva la Repubblica?
Noi non vorremmo né l’un cosa, né l’altra. Dare senz’altro l’Italia un’altra volta nelle mani al principio che l’ha tradita ci parrebbe ormai qualche cosa di peggio che una stoltezza. Intimar la guerra ai governi italiani mentre pende la guerra d’indipendenza ci parrebbe non solo indebolire l’Italia rendendone più sensibili le divisioni, ma un precipitarla in una guerra civile che peserebbe lungamente sulla coscienza dell’uomo, o del partito che l’avesse provocata. E alzar nella Lombardia la bandiera monarchica o la repubblicana è ugualmente decretare la guerra civile: il partito che facesse una cosa o l’altra ne avrebbe la responsabilità…”.

“Sicché convien dare all’insurrezione Lombarda una bandiera, e una bandiera che possa essere accettata da tutti i partiti. Tale ci pare quella della sovranità popolare, la quale si traduce nella parola Assemblea Costituente Italiana…”.
 
- L’insurrezione ora e un fatto! -

“Italiani! La misura è colma, l’ora è suonata, su, in nome di Dio e del popolo! …Non è più la guerra di quei che capitolano, non è la guerra di quei che nella vittoria per l’indipendenza non veggono che l’acquisto di un territorio di quei che a metà cammino tradiscono, è la guerra santa del popolo, è la guerra che si combatte per l’acquisto della nazionalità e libertà nostre conculcate, è la guerra che solo può rigenerare l’Italia”.

“La patria nostra ha molto sofferto, fu a mal punto, e noi quasi per un istante abbiamo disperato; ma il momento della speranza è venuto, e noi lo salutiamo con gioia…”.
 
- Governo e armata di popolo -

“L’unità morale dell’Italia è un fatto compiuto. Di questa idea s’impronta ogni moto d’ogni angolo d’Italia. Pochi mesi sono il popolo insorgeva in Livorno e fra le barricate sparse del suo sangue gridava Costituente Italiana; quel grido suonava fra le fucilate in Genova: fu violata sin la capitale del Re di Piemonte, sino il Quirinale del Papa.
E allora per la prima volta si vide una parte d’Italia totalmente libera. Grave e decisiva influenza aveva ogni suo fatto non solo pel risultato pratico, ma perché rappresentava il vero concetto del popolo italiano. Ogni partito avea sino allora agito nel suo nome, però la prima parola che gli sgorgava spontanea dal cuore costituiva un solenne giudizio. E questa parola noi l’abbiamo udita…”.

- Il cristianesimo e lo sviluppo democratico del popolo -
 
“Il Papato s’è maritato alla tirannide, e come a questa, l’angelo della giustizia gli aveva scritto sulla fronte il tremendo domani morrai. Pio IX fu travolto dalla propria posizione, e il dì della prova, egli che aveva giurato di essere cogli oppressi, fu cogli oppressori. Da qual momento il popolo comprese che lo spirito di Dio se era colla Chiesa, non era col principato, e fu rispettata la Chiesa, e fu rovesciato il principato…”.
 
“E noi crediamo che la Religione si farà più sublime e pure fra noi, liberandosi dai pensieri mondani che si sono infusi in lei come un germe di corruzione. Noi crediamo che il cristianesimo si rinvigorirà dello sviluppo democratico, il quale non è che un’applicazione. Il Cristianesimo fu santo quando fu la religione del popolo, e lo ritornerà quando ridiverrà religione del popolo”.
 
- Basta con le mezze misure: chi rompe paga -

“Fratelli, in nome d’Italia, fratelli di speranza e di patimenti, per l’amore che avete a voi stessi, alla vostra dignità di uomini, alla libera Italia che non esiste per anco, scuotetevi!”.
 
“Finiscano le ipocrisie delle mezze misure, del fatto che maschera il diritto, del diritto che maschera il fatto. Se vogliamo esser liberi, è suonata l’ora del grande esperimento; se vogliamo giacere impossenti o limosinare alla porta d’ogni popolo la libertà, nella medesima guisa di tapini che, per odio al lavoro, vanno mendicando a frusto a frusto la vita con monotoni lagni, a che si domanda sovranità popolare costituenti italiane?”.
 
- Fratelli d’Italia -

“Finalmente siamo alla vigilia del tremendo conflitto dei due principii, indipendenza o schiavitù, assolutismo o libertà, né v’ha transazione o altra via conciliativa…”.
 
“Si corra in massa, e subito, alla nazionale vendetta. , gridano i martiri che caddero in Lombardia pugnando da eroi, e guidati al macello dal tradimento infame. , gridano i massacrati dai carnefici che sono ancora lordi di sangue di quei nostri fratelli; là, gridano le pollute ed espilate chiese, le concussioni, le dissipate sostanze di cittadini onesti ed innocenti.
E meglio ancora infiammi gli sdegni la insolenza oltracotante: il sacro territorio della Repubblica Romana fu violato; lo straniero ha insultato Ferrara, e taglie impose ed ostaggi, e le abolite e detestate insegne del caduto Papato volle restaurare…”.

“Chi non ha fucili impugni spada o stocco; chi non ha altra arma, dia mano all’accetta, alla scure. Quando il furore è grande. Le mani, il morso, lo stesso petto sono armi irresistibili…”.
 
- La battaglia è cominciata -
 
“Romani e toscani Fratelli! Il cannone tuona lungo le rive del Po! I Liguri e i subalpini s’avvallano in compatte falangi sulle sponde cruente del sangue dei nostri martiri. Fratelli italiani udite! Un fragor lontano percuote le vostre orecchie, è l’eco solenne di tremenda battaglia. Il sospiro di tanti secoli, il fremito dell’anima vostra, il sacro deposito di tutte le nostre speranze pende tra la vita e la morte…”.

“Da un lato sta la libertà ed ogni bene, dall’altro la schiavitù e la miseria. La patria pende nel terribile evento. Un raccapriccio si solleva a questo pensiero e tale che se alcun senso penetrasse oltre tomba, le ossa dei nostri martiri si scuoterebbero negli antichi e nuovi sepolcri…”.
 
“La battaglia è incominciata, si accorra da ogni parte, si attacchi, si stringa il barbaro da tutti i lati, Roma e Toscana di fianco, Venezia da tergo lancino i temuti crociati. Un giorno ancora e l’opera dei padri darà frutto di sommo bene o di incalcolabile sventura pei figli…”.

Da Scritti editi e inediti
- La nuova Italia -

 
“l’idea d’Indipendenza è accettata generalmente da tutti. Però la controversia non cade che sui modi di acquistarla,e poscia di applicarla alla nazionalità. In quanto a noi, crediamo che la superiorità che accerta l’esito alla nostra causa, consiste precipuamente nell’idea d’indipendenza. Scriveremo sulla nostra bandiera una parola che abbia un’eco in tutti i cuori d’Europa.
Stringeremo una lega coi popoli, e spereremo in quella di qualche governo (giacché, quanto all’esser soli, non si può neanche pensarvi, e gli interessi sono così reciprocamente collegati, che nessuno può muoversi senza che altri si muovano, e chi non sta con lui sta contro di lui).
Chiameremo alla vita civile il popolo, perché nelle nostre file ci sieno braccia di cittadini, o di contenteremo di braccia di soldati; avremo un’insegna, o molte insegne…”.

- Discorso pubblico -

“Una nazione che festeggia una insurrezione, dice che non è schiava. Una nazione che osa leggere ad alta voce all’Europa questa pagina della sua storia, dice che ha irrevocabilmente deciso di esser grande… Viva dio, il Popolo e la Nazionalità italiana”.

- Associazione per la libera indipendenza italiana -
 
“ora, ciò che si ha maggiormente a temere è che per mancanza di consiglio, d’armonia d’azione, di scopo comune, gli elementi della vita nazionale, o divampino in vani e scomposti conati, o isteriliscano nella pubblica angoscia, nel disonore, nello scetticismo della delusione, nella inattività… L’Italia salvi l’Italia!”.

Da Italiani, in Lombardia

“Italiani! Chi non sente fremere il cuore in petto, al grido di Mazzini, chi non s’alza risoluto, pronto a porvi la vita, chi non anela nell’ora del combattimento, quegli è indegno di libertà, è indegno di avere una patria. Ah no! Gl’Italiani non diano il triste esempio, lo spettacolo allo straniero, di venir meno nell’ora suprema del pericolo…”.

“Italiani! Un’insurrezione Lombarda era un desiderio, una speranza; ora è un fatto, un fatto che bisogna aiutare con tutte le forze, un fatto in cui tutto quanto è risposto, un fatto del quale se non profittiamo, siamo disonorati, perduti. Italiani, in Lombardia!”.
 
Da Per la Costituente Romana

 
“Nella questione Romana è la questione Italiana, per quanti credono nell’avvenire della patria. La nostra nazionalità sarà, o tosto un fatto, o ancora lungamente un desiderio, secondo che la rivoluzione di Roma, o vincerà, o sarà vinta. Un tremendo dilemma s’affaccia alla nostra politica.
O avremo in Roma il Papa, colla reazione e le baionette straniere… o avremo la Costituente, circondata e assicurata da baionette italiane, e ciò importa l’Italia del Popolo. Che gli Italiani scelgano!”.

“Guerra, Costituente; sono, ripetiamo, due termini che possono disgiungersi. Intorno alla bandiera sul Campidoglio gli Italiani debbono stringersi insieme con una mano, agitare le spade coll’altra. Dalla Costituente la nuova Italia deve escire armata. Come Minerva dal capo di Giove”.
 
“L’Italia, in questo momento, concentra le sue forze al conseguimento di due grandi risultati: la nazionalità e l’indipendenza. Insormontabile ostacolo per l’una cosa e l’altra è il principato papale, come quello che, non solo stabilisce, ma cerca consacrare il frazionamento, e che, per la sua doppia natura, ha effetti spesso contrarii, sempre divisi da quelli della nazione…”.

STRINGIAMCI A COORTE! SIAMO PRONTI ALLA MORTE; ITALIA CHIAMÒ


 
***Scritti e cenni biografici tratti da Goffredo Mameli, vita e scritti scelti, Dalai editore – Milano 2011

2 febbraio 2012

CINCINNATO E LA LEGGENDA DEL CONTADINO RICCIOLUTO

Esempio di dedizione alla Patria. Valoroso difensore delle tradizioni dell’antica Repubblica romana. Solca ancora il cammino della storia più per quanto rinunciò che per quanto ottenne

UN COMANDANTE MILITARE TRA BESTIE E CIPOLLE
Siamo nella leggenda, Roma è solo una città che lotta per il predominio sulla Penisola, l’impero è molto lontano e la Repubblica basa le sue fondamenta sul valore militare e la serietà dei costumi.
La figura di Lucio Quinzio Cincinnato, secondo quanto tramandato, rispecchia in pieno questo quadro: nella sua esperienza esempio di “buona direzione, servizio al buon pubblico, virtù e modestia”. Nato intorno al 520 a.C. – non si conosce la data di morte – “i suoi capelli dovevano essere ricci perché la parola Cincinnato in latino vuol dire riccioluto… Per ben due volte, dice la leggenda, fu eletto dittatore affinché potesse risolvere situazioni belliche che altri generali non erano stati capaci di chiudere soddisfacentemente. Il che vuol dire che aveva un bernoccolo spiccato per la tattica e la strategia, magari primitivo e naif ma non meno producente di quello che avrebbe potuto mostrare un raffinato ufficiale di carriera”. G. Antonelli, Gli uomini che fecero gande Roma antica, p.30.

Discendente dalla gens Quinctia, già politico e console, si ritrovò in pesanti ristrettezze dopo il pagamento di una forte cauzione dovuta ad un processo contro il figlio Cesone costretto all’esilio. Da qui obbligato ad occuparsi della sua famiglia coltivando un podere oltre Tevere, probabilmente dalle parti del Vaticano: “Cincinnato, con l’aiuto della moglie Racilia… passava la giornata ad arare, a seminare, a raccogliere, a governare le bestie, galline, maiali, buoi, il mulo per trasportare le derrate dal suo orto in città… che costituiva un mercato inesauribile per i suoi porri, per i suoi agli, le sue cipolle e via dicendo”. G. Antonelli, Cit, p.31.
 
DALLA VANGA ALLA DITTATURA
Nel frattempo Roma era alle prese con lo scontro in corso con gli Equi (popolazione tra il Lazio e l’Abruzzo) che, venendo meno ad un accordo di non belligeranza, avevano ripreso a saccheggiare il territorio latino fino all’agro romano ponendo anche sotto assedio l’accampamento del console Lucio Minucio.
Così Roma in tumulto invocava una soluzione e cominciò a farsi strada l’idea di nominare Cincinnato dittatore secondo la magistratura straordinaria prevista dalla Repubblica romana (in carica con pieni poteri non più di 6 mesi): “Il pericolo fu così grave che il Senato, per pararlo, concesse titolo e pieni poteri di dittatore a Quinzio Cincinnato che, con un nuovo esercito, liberò le legioni circondate… Poi deposto il comando dopo averlo esercitato solo per sedici giorni, tornò ad arare il podere dal quale era venuto”. I. Montanelli, Storia d’Italia 1 – Dalla fondazione di Roma alla distruzione di Cartagine, p.80.

“Come sempre Cincinnato accudiva il suo campicello e intento a questo lavoro lo trovarono i messi del senato venuti a comunicargli le decisioni prese… Non fece obiezioni, riportò la vanga nel fienile, fece qualche raccomandazione alla moglie su come seguire le coltivazioni e, prese le armi dal ripostiglio, si presentò al Campo Marzio dove aveva già dato ordine fossero convocati i cittadini destinati alla campagna militare”. G. Antonelli, Cit, p.33.

Da quel momento fermò ogni attività legislativa, giudiziaria, commerciale, privata e ordinò di raccogliere l’esercito con cibo per pochi giorni, armi e pali. Si avviò verso l’accampamento di Minucio con l’intento di costruire un palizzata alle spalle degli Equi trasformandoli da assedianti ad assediati tra due fuochi. Quella stessa notte ebbe inizio la Battaglia del Monte Algido (probabilmente nel 458/457 a.C.) che portò alla sconfitta degli Equi e alla liberazione dei soldati romani.
Il bottino però fu distribuito solo all’esercito di Cincinnato mentre Minucio e i suoi restarono a bocca asciutta pagando la colpa di aver subito l’assedio. A trionfo celebrato il comandante contadino restituì i suoi poteri nel giro di sedici giorni e non di sei mesi come previsto, e tornò al suo podere.